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Dal ddl Editoria meno libertà e più dirigismo. Serve il contrario

I media per ovvie ragioni preferiscono non parlarne. Nel nostro Paese non esiste soltanto una Casta della politica (e del sindacato) ma anche quella dell’editoria: uno dei settori economici più assistiti dallo Stato. Avendo scelto di mettere al bando ogni ipocrita moralismo sui costi della politica, lo stesso è giusto fare con la casta dei giornali. Non si tratta quindi di ripetere inchieste alla Report ma di fotografare alcune timidezze di troppo che il legislatore tende ad avere nei confronti di questo Potere. Il settore infatti da tempo invocava una riforma che ne semplificasse e razionalizzasse il rapporto con lo Stato (e le sue provvidenze). Era legittimo attendersi un provvedimento snello che puntasse a semplificare le regole e a diminuire il peso del pubblico. Dopo un periodo lunghissimo di audizioni, consultazioni e ‘concerti’, il sottosegretario Levi ha finalmente portato in Consiglio dei Ministri il provvedimento, la riforma tanto attesa. Ovviamente, il governo non ha deluso le aspettative ed ha ratificato un testo che va nella direzione opposta a quella del mercato. Si continua a privilegiare il dirigismo pubblico come filosofia di fondo e quindi, come conseguenza logica, il sostegno alla carta stampata, l’imposizione della forma societaria della cooperativa per accedere ad alcuni contributi e la tentazione di dirottare ‘artificialmente’ maggiori risorse pubblicitarie verso i giornali di carta.Non sappiamo se questo ddl diverrà legge. Crediamo però che meriti un dibattito più grande di quello visto in queste settimane. Proviamo a fare qualche esempio. La quasi totalità dei quotidiani italiani riceve aiuti economici e finanziari. Alcuni di questi però vanno a finire nei bilanci di fogli clandestini, di giornali cioè che non legge nessuno e che vengono stampati solo per intascare i contributi pubblici. A parte i casi di vera e propria truffa (da perseguire penalmente con maggiore determinazione), si tratta spesso di pubblicazioni ‘politiche’ che il Parlamento – con l’idea giusta di garantire il pluralismo – comunque vuole tutelare. Bene. Invece però di obbligare la trasformazione in cooperativa e ridurre l’aliquota di cofinanziamento, perché non incentivare il passaggio al web? La voce di costo più rilevante è proprio quella della tipografia: è lì che si concentra, laddove c’è, anche il grosso del meccanismo truffaldino. Se questa voce viene meno, l’impresa editoriale ‘politica’ costerà molto meno. Anche allo Stato. E magari capiterà che gli accessi al sito saranno maggiori alle copie effettivamente vendute sino ad ora. Insomma, invece di favorire l’innovazione, il risparmio, il mercato (premiando chi ha lettori e pubblicità e non il contrario), si resta fermi al vecchio schema assistenzialista con qualche modesto ritocco.Esiste poi un altro argomento che sta alimentando un minimo di controversia ed è quello che riguarda l’attività dei centro media. Secondo il governo e la sinistra, queste aziende che gestiscono il budget pubblicitario delle imprese avrebbero la grande colpa di dirottare risorse verso la tv invece che verso i giornali e quindi vanno punite o maggiormente regolamentate. C’è da impallidire! I centro media sono società altamente specializzate e chi fa investimenti pubblicitari vi si rivolge non per obbligo di legge ma per scelta di mercato: il centro media ha il compito di massimizzare i risultati dell’investimento. Se sbaglia, l’azienda non sarà più suo cliente. Insomma, una tipica attività di mercato: lavori bene, il cliente ti rinnova la fiducia; i risultati sono negativi, il cliente ti molla. Cosa debba centrare lo Stato non si capisce. Poiché però molto spesso l’investimento pubblicitario ha una resa maggiore in tv piuttosto che sul quotidiano, eccoti servita la vendetta di una maggioranza succube del sostegno di alcuni grandi giornali. Esiste infatti un meccanismo – legittimo ma effettivamente opaco – detto dell’overcommission che le concessionarie di pubblicità riserverebbero ai centro media. Queste stesse aziende avevano dichiarato disponibilità a superarlo ed avevano individuato anche un percorso di trasparenza e di mercato. Ovviamente, ignorato. Che ogni settore cerchi di fare ‘lobby’ per promuovere o tutelare i propri interessi è del tutto naturale e corretto. Che il governo si faccia interprete di una sola parte piuttosto che ricercare soluzioni di buon senso mediando gli interessi di parte con quelli dello Stato e del contribuente (cittadino e impresa) è semplicemente miserevole. L’auspicio è che il Parlamento dimostri di non voler reiterare l’errore e approfitti del dibattito su questo ddl per un’iniezione di libertà ed una diminuzione di dirigismo. Anche alla Casta dell’editoria farebbe bene questa ricetta.

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