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Istruzioni per il Pdl

Il 1995 fu un anno “cruciale” nello sviluppo del percorso politico di Pinuccio Tatarella. Non soltanto perché la sua “creatura”, Alleanza nazionale, dal febbraio prese a nuotare in mare aperto, ma anche per le ambizioni che cominciava a coltivare riguardo agli sbocchi che quel nuovo e così composito soggetto avrebbe potuto avere. In realtà Tatarella, dopo il Congresso di Fiuggi, invece
di sentirsi appagato, mostrava un’inquietudine che a molti appariva ingiustificata.

Avrebbe dovuto essere soddisfatto dell’avvenuta operazione, peraltro abbastanza indolore in quanto ben preparata e digerita senza particolari difficoltà dalla base. Invece c’era qualcosa di apparentemente inspiegabile che lo rendeva perplesso, dubbioso, perfino intrattabile a volte quando si trovava di fronte a chi riteneva il percorso concluso. Ecco: era questo che non sopportava. Immaginare Alleanza nazionale come l’approdo di un itinerario politico-culturale lo considerava inaccettabile. Perciò cominciò a ragionare sulle prospettive politiche di quella “forma” che stava prendendo la destra proiettandola elettoralmente sul traballante scenario di una Seconda Repubblica della quale con difficoltà si riuscivano ad individuare i contorni, posto che la prima non era stata ancora del tutto archiviata. Che cosa ne sarebbe stato di Alleanza nazionale, al di là della funzione parlamentare che indiscutibilmente ne faceva una protagonista della vita pubblica? A pochi mesi dalla costituzione del nuovo partito sembrava impensabile impegnare risorse, energie, intelligenze, riflessioni per costruire una dimensione della quale Alleanza nazionale fosse parte attiva e non assorbente, esclusiva, totalizzante.

Insomma, per Tatarella quello strumento che aveva appena passato le acque ed aveva riscosso una risonanza internazionale notevole poiché, non senza intime sofferenze, era riuscito a dare l’addio alla “casa del padre” per costruirne una più grande in grado di comprendere identità diverse da fondere in un crogiuolo magari incandescente al punto da infiammare la vita politica italiana e contribuire alla fondazione di una nuova democrazia, non poteva restare uguale a se stesso. In altri termini, Alleanza nazionale doveva essere l’avvio di un processo innovatore. Tatarella aveva ben chiaro che lo spirito coalizionale, al quale il suo partito aveva offerto un apporto decisivo, si sarebbe ben presto esaurito nella pratica di governo o di opposizione se non si fosse dato un profilo capace di fare intuire all’opinione pubblica ed alla classe politica che la sua consistenza non era transeunte od occasionale, ma profondamente radicato in una sorta di appartenenza che trascendeva il dato meramente programmatico per aspirare ad essere quanto più possibile un soggetto politico omogeneo, fondato su alcuni principi su cui attivare il confronto con la sinistra e, possibilmente, l’allargamento della platea elettorale coinvolgendo i centristi post-democristiani, molti dei quali non aspettavano altro che di ritrovarsi sotto un tetto comune condividendo gli stessi valori. “Cruciale”, dunque, per Tatarella fu quell’anno.

Poiché alla costruzione ed all’affermazione di Alleanza nazionale legò la nascita di un grande, ambizioso, lungimirante centrodestra, del quale naturalmente, il giovane movimento non poteva che essere parte integrante. Un centrodestra capace di colloquiare con la sinistra ed avviare con essa una discussione sul bipolarismo (possibilmente mite ed “armonico”); uno schieramento pieno di certezze, ma che non respingeva aprioristicamente i dubbi; in sintonia con la maggioranza degli italiani che non “stavano dall’altra parte” e che Tatarella quantificava nel sessantacinque per cento dell’elettorato. Alleanza nazionale non poteva bastare. Occorreva superarla, senza ovviamente abrogarla. Così come era necessario superare le formazioni che, a diverso titolo, si riconoscevano nel centrodestra o che comunque, per ragioni storiche, culturali, religiose, non potevano ritrovarsi, neppure tatticamente, nel centrosinistra. C’era bisogno di uno strumento all’altezza, dunque.
Tatarella, cui non difettavano fantasia e passione, s’inventò il Comitato “Oltre il Polo”.

Un’aggregazione di uomini e movimenti politico-culturali liberi formata dalla componente più dinamica e meno arroccata attorno ai pregiudizi della società italiana, capace di andare al di là del Polo delle libertà, il cartello elettorale messo insieme da Silvio Berlusconi e contendere nel tempo la guida del governo del Paese alle forze progressiste le quali, dopo la disfatta del 1994, si stavano riorganizzando. Sulla rivista che fondò per sostenere il progetto, non poteva che chiamarla Centrodestra, appunto, scrisse che il Comitato si rivolgeva non soltanto a coloro che si erano riconosciuti fino ad allora nello schieramento non di sinistra, ma anche a chi era rimasto alla finestra, ed ancora di più a quanti non volevano, pur nutrendo diffidenze per il cartello berlusconiano, far vincere la sinistra. Era convinto che ci fosse “uno spazio aperto, diffuso, indeciso, moderato, che non emerge, non si esprime, non si schiera apertamente e che finora non ha ritenuto opportuno schierarsi con nessuna delle forze del Polo: questo mondo sommerso deve diventare soggetto visibile ora che la coalizione di centrosinistra è diventata di sinistra-centro con il congresso egemone del Pds”. La sconfitta elettorale del Polo nel 1996 dimostrò quanto Tatarella era stato lungimirante. Lui paventava un esito tanto nefasto, e non soltanto per gli intrighi di Palazzo che avevano preceduto la defenestrazione di Berlusconi e la gestione del governo che ad essa seguì, ma per il semplice motivo che quel centrodestra non era stato capace di allargarsi, di farsi partito-coalizione, di contendere alla sinistra, in nome di uno spirito unitario, la guida del Paese. Vennero tenute fuori componenti importanti; non ci fu modo di amalgamare il tutto; vinse, nonostante la tenacia di Tatarella, la pigrizia di molti che non riuscivano a “pensare in grande”.

E a lui non restò che tentare di contribuire a mettere insieme uno schieramento riformatore che nella Bicamerale presieduta da Massimo D’Alema avrebbe potuto guadagnare terreno ed approntare quella revisione costituzionale in chiave presidenzialista. Si fu ad un passo dal conseguire il successo, ma nel 1998 saltò tutto e saltò anche Prodi. Le riforme potevano attendere. Anche per responsabilità di un centrodestra poco coeso, inconsapevole ancora della partita che si stava giocando, votato più al piccolo cabotaggio che ad una seria riflessione sui bisogni istituzionali del Paese. Mancò allora, e Tatarella ne era convinto e la circostanza lo faceva disperare, un progetto culturale perché si potesse davvero, e senza incertezze, andare “oltre il Polo”; manca oggi. Si pensava che le forze politiche del centrodestra potessero stare insieme con il collante più vario, a cominciare dalla popolarità di Berlusconi, ma pochi si affannavano a sostenere che una tale prospettiva aveva il fiato corto; oggi le cose non sono cambiate. Se ci fosse Tatarella credo che obbligherebbe tutti a ragionare secondo altri parametri e non si accontenterebbe di un plebiscitarismo senz’anima a fondamento di un soggetto politico il quale più che superare le vecchie appartenenze dovrebbe annullarle in un “cartello” senza una prospettiva politica, se non quella di vincere le elezioni (fino a quando?). Nel primo numero di un altro suo giornale, per me indimenticabile, Repubblica presidenziale (novembre 1990), come al solito in anticipo sui tempi, Tatarella immaginava un “contenitore” abbastanza capiente da contenere un’idea che poteva essere il lievito di un futuro schieramento. Scriveva: “Occorre, superate le rivendicazioni cronologiche di primato delle tesi e accantonati i motivi di divisione sull’attuazione dell’ipotizzata Repubblica presidenziale, procedere ad un’alleanza sul tema. Costruire cioè un contenitore arioso con le forze che, per motivi diversi, sono presidenzialiste (missina, socialista, liberale e leghista) e con tutti coloro che nei partiti o fuori dai partiti, in qualsiasi partito o movimento, di qualsiasi schieramento ideologico, vogliono il cambiamento, la modernizzazione, il nuovo, l’efficienza, il decisionismo, attraverso il solo strumento possibile: la democrazia diretta, la repubblica presidenziale, la riforma della Costituzione”.

Poteva apparire utopistico, ma è innegabile che era la prefigurazione di uno schieramento riformista che poteva coagularsi attorno ad un’idea. Proprio ciò che manca oggi. E perciò del centrodestra tatarelliano avvertiamo una disperante necessità.

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