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Mare nostrum di storia e politica

Il mare, si sa, non separa: collega. Il Mediterraneo, mare di mezzo, è stato per millenni crocevia e crogiuolo.
 
Teatro di molteplici commerci… e razzie, sono le sue rive, e non l’entroterra, che da sempre definiscono la civiltà mediterranea. Continente marittimo, agorà, luogo di origine del primo alfabeto, culla del monoteismo, matrice di tante commistioni etniche e culturali, è soltanto in questo dopoguerra che sono comparse innumerevoli faglie geopolitiche, storicamente inedite, conseguenze ritardate del disfacimento dell’Impero ottomano: nei Balcani, a Cipro, in Medio Oriente e persino fra le nazioni del Mashrek e del Maghreb. Le ragioni e le dinamiche sono diverse, naturalmente. Ma si sono perse, si direbbe, le ragioni del vivere in comune, in quel “mare nostrum” dalla storia, l’arte, la filosofia frammiste e condivise.
 
Quei fattori che inducono alcuni a ritenere che vi siano maggiori affinità caratteriali fra i Paesi rivieraschi a nord ed a sud che fra i Paesi latini e gli anglosassoni nell’Unione europea. Come se il limes romano perdurasse tuttora. Non sorprende pertanto che, mentre l’Europa occidentale si apriva ad Est, siano stati Malta (ad Helsinki, ai tempi della Csce), la Spagna (in ambito Ue, nel 1995 a Barcellona) e la Francia (il 13 luglio scorso a Parigi) a tentare di estendere al Mediterraneo gli esperimenti di integrazione europea. L’Italia, dal canto suo, ha in particolare curato i rapporti con la Libia di Gheddafi, refrattaria ad accettare impegni multilaterali, rifiutando persino il “piano d’azione” bilaterale propostogli dall’Unione.
 
Il programma dell’Unione nei confronti dei suoi “partner mediterranei”, impostato a Barcellona secondo la propria tripartizione sicurezza-economia-società, si è rivelato troppo impegnativo per i suoi potenziali beneficiari e, condizionato dalle difficoltà negoziali israelopalestinesi, non è mai decollato. Nel frattempo, l’allargamento dell’Unione ad est, alimentato dalla positiva rispondenza dei destinatari, ha preso il sopravvento nelle attenzioni di Bruxelles, riproponendo le consuete rimostranze dei Paesi arabi, in un circolo vizioso di aspettative e recriminazioni reciproche.
 
Dopo aver constatato, da ministro dell’Interno, l’inconsistenza della collaborazione persino nell’ambito del Gruppo 5+5 (Paesi mediterranei occidentali) su questioni di emergenza come il terrorismo, i traffici illeciti di ogni genere, l’immigrazione illegale, Sarkozy ha voluto intraprendere una strada diversa, parallela a quella impostata dell’Ue, inserendola persino fra le priorità della sua campagna elettorale presidenziale. Il suo intento originario era quello di avviare e gestire in comune, proprio fra i “cinque più cinque”, alcuni progetti concreti prioritari su temi di maggior incidenza socio-politica, estraendoli dalle secche del negoziato mediorientale che intralciano tuttora la collaborazione regionale d’assieme. L’obiettivo era quello di far sì che il fattibile non fosse più ostacolato da una situazione ultima ideale ma ancora incerta, e che alcuni settori di collaborazione di riconosciuto comune interesse potessero invece procedere sulla base delle loro specifiche potenzialità. La necessaria premessa rimane comunque quella di ottenere, stimolandola con progetti concreti decisi di comune accordo, una maggior integrazione politica ed economica fra gli stessi partner arabi, verso una zona di più libero scambio non soltanto commerciale, ma anche di beni, servizi, capitali e persone. Un approccio che si ispira pertanto, senza dirlo, a quello di Roosevelt, Truman e Marshall nei confronti dell’Europa post-bellica, ed i cui risultati positivi dovrebbero far scuola in un mondo che aspirerebbe a diventare multipolare, del quale il mondo arabo appare ancora estraneo.
 
Per Sarkozy, si sarebbe dovuto trattare di un nucleo propulsivo all’interno dell’Unione, di una “cooperazione strutturata rafforzata” ante litteram ai sensi del Trattato di riforma che fatica a materializzarsi. L’eterodossia istituzionale del nuovo Presidente francese ha però turbato i benpensanti, specie a Berlino, che hanno preteso e ottenuto di ricondurre l’originaria “Unione mediterranea”, collaterale al più esteso partenariato euro-mediterraneo, nell’alveo istituzionale consueto. La denominazione finalmente adottata, “Processo di Barcellona – Unione per il Mediterraneo”, rischia però paradossalmente di alimentare l’antica obiezione dei partner arabi che si tratti dell’ennesimo programma dell’Unione loro accordato senza un’adeguata preventiva consultazione.
 
Diversamente da quel che va accadendo in altre regioni, la nazione araba sembra ancora priva di quella “volontà di vivere assieme” che Renan indicava come elemento coesivo essenziale. Il giornalista libanese Samir Kassir, prima di cadere sotto i colpi di ignoti assassini, aveva scritto della “infelicità araba”, affermando che essa deriva dal fatto che “il mondo arabo è la zona del pianeta dove, oggi come oggi, l’uomo ha minori opportunità… ed è pertanto indotto ad abbracciare la tesi dello scontro di civiltà”.
 
Per scongiurare tale deriva, all’integrazione europea deve pertanto urgentemente corrispondere uno speculare, anche se non identico, processo integrativo, o quanto meno una più esplicita unità di intenti, interaraba. Lo scopo essenziale della prospettata Unione fra Stati diversificati, ma corresponsabilizzati e co-gestori di progetti comuni, è quello di stimolare nel mondo arabo lo sviluppo graduale ma coerente di una società civile pluralista, più articolata, in grado di collegarsi a proprio vantaggio con la molteplicità di sollecitazioni socioeconomiche che la globalizzazione comporta. E tagliare l’erba sotto i piedi di un fondamentalismo che dell’assenza di prospettive per le nuove generazioni ha fatto il proprio brodo di coltura. Avviato in un’atmosfera di generale concordia all’inizio del turno di presidenza francese, la concreta fattibilità dell’esercizio dovrà ora manifestarsi concretamente nella riunione ai primi di novembre, quando si tratterà di definire la sua configurazione essenziale (co-presidenze rotanti, sede del Segretariato, settori prioritari). Sei contenitori infrastrutturali, da riempire con specifici progetti finanziabili anche dal settore privato, sono già stati individuati nell’ambiente marino, nelle autostrade marittime e terrestri, nella protezione civile, nelle energie alternative, nell’educazione e ricerca, nelle piccole e medie imprese. All’appuntamento, le controparti arabe, o almeno quelle più interessate dovranno auspicabilmente presentarsi più unite o quanto meno meglio coordinate negli intenti di fondo, anche se gli specifici progetti comporteranno geometrie variabili, ad hoc.
 
Nel frattempo, gli avvenimenti estivi nel Caucaso hanno nuovamente portato alla ribalta la direttrice orientale della “politica di vicinato” dell’Unione, potenzialmente a discapito di quella verso sud, nella misura in cui i destinatari di quest’ultima tarderanno a corrispondervi. La “prospettiva europea” è ovviamente più concreta, anche politicamente, verso est; e talvolta troppo irruente la risposta. Necessariamente di diverso tenore la sua forza d’attrazione a sud; ed esitante o comunque inadeguata la reazione. Eppure è nel rapporto con i suoi vicini che l’Europa si definirà: ambedue i termini di riferimento sono indispensabili perché la fisionomia dell’Unione, la credibilità politica e l’efficacia operativa della Pesc e della Pesd, si affermino. Come la situazione internazionale urgentemente richiede. L’intero bacino mediterraneo, al nord come al sud, rischia di trovarsi altrimenti marginalizzato, estraneo alla costruzione del futuro.
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