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Europa, let’s change!

“Non sono nato in una mangiatoia”. Così ha detto Obama, cosciente delle attese suscitate dal suo carisma. I problemi da affrontare sono enormi. In primo luogo la crisi finanziaria, che ora diventa economica, ha la sua origine in errori compiuti dalla politica americana. Non c’è solo un problema di regolazione dei mercati, ma anche lo squilibrio strutturale creato dall’eccesso di debito delle famiglie americane. Negli Anni ‘70 gli Stati Uniti decisero di scaricare sul resto del mondo gli effetti della propria politica economica diventando in cambio il principale motore della crescita. Oggi il motore si è spostato in Asia e lo squilibrio non è più sostenibile. Il mondo guarda inoltre con preoccupazione a possibili pulsioni protezioniste.
 
C’è poi la lista impressionante dei problemi politici e strategici. Due guerre in corso: Irak e Afganistan. Numerosi Paesi con cui l’America è in potenziale conflitto, ma della cui collaborazione non può fare a meno: Russia, Cina, Iran. Il Pakistan sull’orlo dell’esplosione. Il conflitto israelo-palestinese sempre più grave. L’Africa che moltiplica le catastrofi umanitarie. Un problema particolare sarà rappresentato dalla difesa dei diritti umani nel mondo. Bush ha preteso di esportare la democrazia e la libertà con metodi che peraltro erano largamente in contraddizione con questi valori. Obama viene eletto anche con una forte domanda, interna e internazionale, di riaffermarli. Dovrà tenere conto del forte sentimento antioccidentale nei Paesi emergenti che contestano non solo il nostro potere, ma anche la nostra pretesa superiorità morale.
 
Esiste nel mondo, Europa compresa, una particolare schizofrenia rispetto al potere degli Stati Uniti: la loro debolezza fa paura ancora più della loro forza. Ci sono a questo proposito due parole chiave spesso ricorrenti nella campagna elettorale del neo-presidente americano: leadership e multilateralismo. Il senso che saprà dare a questi due concetti determinerà il corso degli avvenimenti. Leadership è un termine ambiguo: lo usava anche Bush. Per quanto riguarda il multilateralismo, si parla molto della necessità di riformare l’architettura delle organizzazioni internazionali in modo da dare uno spazio adeguato ai Paesi emergenti. Si tratta certo di un obiettivo importante; tuttavia qualsiasi architettura potrà funzionare solo se i nuovi partecipanti avranno l’effettiva volontà di contribuire alla stabilità del sistema internazionale e non di sovvertirlo. Abbiamo invece a che fare con Paesi fortemente nazionalisti che si sentono a vario titolo umiliati dall’Occidente. D’altro canto, multilateralismo deve significare che tutti i partecipanti hanno uguali diritti e sono sottoposti alle stesse regole; finora gli Stati Uniti hanno dimostrato una particolare reticenza a sottomettersi a regole internazionali che ne limitino la sovranità.
 
L’Europa si presenta all’appuntamento con alcuni punti di forza. Ha sviluppato nel suo Dna una pratica del multilateralismo che è un modello a livello mondiale. Ha ceduto meno degli Stati Uniti agli eccessi liberisti dell’ultimo decennio. Il suo sistema di protezione sociale, criticabile per le sue rigidità, è tuttavia uno strumento prezioso per far fronte alla crisi. Molte delle recenti analisi europee sulla situazione internazionale si sono rivelate corrette. L’Europa ha saputo mostrare coesione e capacità di iniziativa rispetto alla crisi georgiana prima, finanziaria poi. Assistiamo ad un interessante anche se ancora embrionale riavvicinamento della Gran Bretagna al continente. L’euro ha dimostrato di essere un baluardo essenziale di fronte alla crisi e la Bce si è guadagnata sul campo le credenziali di un’istituzione credibile ed  efficace. Le debolezze europee sono altrettanto evidenti. La struttura istituzionale resta fragile e il futuro del trattato di Lisbona è ancora incerto. Nulla autorizza a pensare che dopo una presidenza francese iperattiva l’Unione potrà condurre la sua azione con la necessaria continuità. La Commissione, l’istituzione prevista dal trattato per interpretare l’interesse comune, è debole e screditata dalla sua inerzia di fronte alla crisi. Desta soprattutto preoccupazione la percezione di una Germania ripiegata su se stessa, poco disposta alla solidarietà europea; il rapporto franco-tedesco, elemento indispensabile di qualsiasi progresso, non è mai stato così carente. Gli europei non si potranno accontentare di formulare le analisi corrette. Un nuovo presidente americano presumibilmente disposto ad ascoltarli più del suo predecessore, pretenderà non solo consigli ma anche assunzione di responsabilità. Sul piano economico innanzitutto, ma anche su quello militare a cominciare dall’Afganistan. Soprattutto, per i motivi già esposti, non dovremo aspettarci dagli Stati Uniti e dal resto del mondo una facile e rapida accettazione del nostro modello di multilateralismo. Dovremo tra l’altro essere consapevoli che Obama sarà in primo luogo responsabile di fronte al proprio elettorato e che un grande Paese può esercitare un ruolo efficace a livello mondiale solo se ritrova fiducia in se stesso.
 
È vero anche per l’Europa. Il senso dell’inevitabilità del declino sembra essersi durevolmente installato nelle società europee. Si traduce anche nel rifiuto di azioni comuni in favore di soluzioni intergovernative; per quanto riguarda le relazioni con gli Stati Uniti, nella spasmodica ricerca da parte di ogni leader europeo di un rapporto personale privilegiato con il nuovo presidente. Azione comune vuol dire invece l’accettazione, soprattutto da parte dei grandi Paesi, di fare un passo indietro rispetto alle istituzioni comuni. Nella prossima primavera ci saranno le elezioni per il Parlamento europeo, con il serio rischio di un’affermazione dei partiti nazionalisti, populisti, o comunque estremisti. Le forze politiche moderate, di destra e di sinistra, si presenteranno sulla difensiva. L’associazione “Notre Europe”, think tank fondato da Jacques Delors e ora presieduto da Tommaso Padoa Schioppa, ha formulato una proposta interessante: che i partiti europei conducano la campagna elettorale intorno ad un proprio candidato per il prossimo presidente della Commissione. Sarebbe il modo per smentire la pretesa del presidente attuale di fare della propria inerzia una garanzia di riconferma, ma soprattutto per dare legittimità politica a personalità capaci di rappresentare autorevolmente l’interesse europeo nelle sfide che ci attendono.
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