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L’enigma del dragone

Riuscirà la Cina a rimanere l’ultima roccaforte stabile all’interno di questa tempesta finanziaria globale o verrà presto trascinata nel vortice?
I funzionari governativi cinesi hanno confermato che la crisi che ha colpito inizialmente gli Stati Uniti non rallenterà le riforme pianificate dei mercati finanziari cinesi. La Cina porterà avanti il suo programma d’introduzione di margin trading, short selling e futures contracts on share prices. Tuttavia, in seguito alla crisi finanziaria asiatica di dieci anni fa, vi è stato un rallentamento del processo di liberalizzazione del conto capitale, pertanto è possibile che i problemi che gli Stati Uniti stanno affrontando al momento potrebbero rendere la Cina più cauta.
Negli ultimi anni la Cina ha giocato un ruolo importante nel finanziamento del deficit statunitense grazie ai suoi sforzi nella gestione del tasso di cambio del renminbi in dollari. Poiché in questo contesto l’obiettivo della Cina è di evitare che il surplus del suo conto capitale aumenti di sproposito, tenterà probabilmente di rallentare la valutazione del renminbi in seguito al rallentamento economico globale.
Se così fosse, la Cina dovrà aumentare la riserva di valuta di altri 300-400 miliardi di dollari che potrebbero finanziare il consistente aumento del deficit fiscale statunitense. La recente riduzione dell’apprezzamento del renminbi indica che la politica monetaria della Cina potrebbe cambiare in seguito all’apprezzamento pari al 20% della valuta del luglio 2005.
Il ministro delle Finanze tedesco, Peer Steinbrück, sostiene che la crisi ridurrà l’egemonia finanziaria statunitense e creerà un mondo multipolare. La ventiseiesima edizione di settembre del mensile The China Daily conteneva un articolo intitolato “La supremazia economica statunitense sta tramontando?”. L’articolo riportava esempi d’investimenti falliti da parte d’aziende straniere nel mercato statunitense, e concludeva affermando che “la crisi recente dimostra che la rivoluzione neo-conservatrice lanciata negli Anni ‘80 è già terminata”. L’articolo attribuiva le cause della crisi a politiche che hanno favorito il gioco delle forze di mercato al di fuori del controllo dei governi in particolar modo all’interno del mercato finanziario.
I funzionari governativi cinesi non hanno dato seguito ai commenti di Steinbrück, tuttavia l’esperienza statunitense li renderà, senza dubbio, più sospettosi nei confronti degli investimenti da parte delle banche occidentali e dei regolamenti ispirati al modello statunitense. Finora la Cina ha perso consistenti somme di denaro in due dei suoi principali investimenti in aziende finanziarie occidentali (Morgan Stanley e Blackstone). Un investimento nella Lehman Brothers avrebbe potuto contenere la perdita, ma in seguito alle perdite ingenti di Wall Street la Cina ha deciso di non rischiare.
 
 
In seguito alla preoccupazione generale per l’economia globale, due settimane fa la Banca Popolare ha ridotto i tassi di interesse applicando il taglio globale deciso l’8 ottobre scorso, atto che segna la prima partecipazione della Cina ad una mossa globale di politica monetaria. All’inizio del mese il governo ha inoltre annunciato un aumento della spesa sulle infrastrutture pari a 586 miliardi di dollari per il 2009 ed il 2010.
Gli aumenti di spesa previsti sono pari al 15% del Pnl, ovvero la somma più ingente che sia mai stata pianificata da qualsiasi governo in risposta alla crisi finanziaria. Ciò dimostra chiaramente che la Cina è pronta a compensare la debolezza nelle esportazioni incoraggiando la domanda interna. Il prossimo passo che deve necessariamente fare è quello di incoraggiare la spesa da parte dei consumatori che è scesa al 36% del Pnl dal 50% degli Anni ‘80 a causa della dipendenza dell’economia dalle esportazioni e dalla spesa del capitale a partire dalla fine degli Anni ‘90.
 
L’obiettivo del governo cinese sarà pertanto quello di mantenere la crescita annuale ad un livello superiore all’8% al fine di creare un numero di posti di lavoro sufficiente per mantenere la stabilità sociale. Attualmente la Cina è molto più sensibile del solito ai rischi della disoccupazione in quanto diverse piccole aziende nel settore tessile e dei giocattoli sono state chiuse quest’anno in seguito all’impatto della crescita dei costi della manodopera e la rivalutazione del renminbi sui margini di profitto. Poiché mira ora a spostarsi da una produzione a basso valore aggiunto e da industrie con manodopera ad alto utilizzo come il tessile, a settori con valore aggiunto come l’elettronica e merci di capitale, desidera farlo evitando di generare un alto tasso di disoccupazione.
La Cina ha le risorse adatte per gestire la crisi finanziaria. La riserva della valuta ammonta a 1,9 trilioni di dollari. Gli introiti derivati dalle tasse costituiscono un ottimo surplus finanziario per il governo. La questione critica è data più che altro dalla volontà dei policymaker di agire prontamente ovvero prima che i primi segnali della crisi economica siano evidenti. Il pacchetto preparato dal governo dimostra che la Cina è cosciente dei rischi legati alla congiuntura economica globale ed è pronta ad agire in modo decisivo.
La crisi attuale segna un passo importante per l’evoluzione della Cina come potenza economica. In un periodo in cui sia l’Europa che gli Stati Uniti hanno subito una serie di modifiche nei loro sistemi finanziari per evitare che la crisi attuale porti ad un tracollo finanziario globale, la Cina ha seguito una politica keynesiana.
 

Ultimamente si è pertanto verificata una convergenza tra l’economia politica cinese e quella dei G-7 nata dal bisogno di compensare i fallimenti derivati dalle regolamentazioni finanziarie e dalla politica monetaria. Gli Stati Uniti hanno tentato per diverso tempo di indurre la Cina ad apportare delle modifiche nella politica economica al fine di incoraggiare la domanda interna ed i mercati liberi. È paradossale che a seguito della crisi causata dalle stesse politiche americane applicate ai mercati finanziari, gli Stati Uniti stiano ora ottenendo le modifiche a lungo richieste.

 
 
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