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Il dollaro nella bufera

Gli Stati Uniti e la Cina sono i due Paesi che hanno affrontato con maggiore energia la crisi produttiva, ma il secondo può spendere del proprio, mentre il primo deve ancora ricorrere al debito estero. Le politiche di rilancio degli altri Paesi invece vacillano per mancanza di idee o di risorse e, talvolta, anche di coraggio (come in Germania); e quelli che hanno risparmi in eccesso, come i produttori di petrolio, dipendono troppo dalla domanda globale per pensare di poter sconfiggere la crisi da soli.
Gli Stati Uniti si devono rivolgere all’estero perché se si rivolgessero all’interno il risparmio si dovrebbe innalzare e, di conseguenza, i consumi ridurre; fallirebbe così la loro manovra di rilancio produttivo. Essi muovono da un disavanzo di parte corrente della bilancia estera già pari a quasi 700 miliardi di dollari (4,6% del loro Pil) ed hanno bisogno di maggiori risorse dall’estero. Tuttavia, se anche riuscissero a restare entro l’attuale deficit avrebbero bisogno di assorbire l’intero risparmio in eccesso della Cina (attualmente sui 370 mld di dollari), del Giappone (che ne ha oggi 156 mld), dell’Arabia Saudita (95 mld) e della Norvegia (89 mld), tutti Paesi candidati ad avere minori risparmi in eccesso a causa della crisi e dei provvedimenti di spesa presi all’interno. La Cina, ad esempio, programma di spendere in un biennio il 18% del Pil e questa decisione non può se non ridurre l’avanzo della sua bilancia corrente estera.
Per le tensioni politiche esistenti tra i due Paesi, non abbiamo incluso tra i fornitori di risparmio la Russia che, con i suoi 100 mld di surplus, potrebbe essere la terza fonte di finanziamento del deficit americano; sempre che, come l’Arabia Saudita e la Norvegia, riesca a compensare con maggiori vendite la caduta del prezzo del petrolio. In ogni caso, gli Stati Uniti devono competere con altri nove Paesi che hanno bisogno di finanziamenti esteri per 350 mld di dollari; tra questi vi è anche l’euroarea (che, con la Spagna in testa, ha bisogno di circa 90 mld di dollari), l’Australia (con un deficit di 57 mld), il Regno Unito (con 46 mld) e la Turchia (con 41 mld).
Non a caso si è mosso il ministro degli Esteri americano, Hillary Clinton, per avere assicurazioni sul finanziamento che la Cina può dare agli americani. Non è chiaro se abbiano concordato un incremento del debito in essere o un suo semplice rinnovo. I cronisti non hanno chiarito questo aspetto di rilievo, come pure non hanno sottolineato che si è mosso il ministro degli Esteri e non quello del Tesoro, dato che il problema è prevalentemente politico perché la stabilità delle due amministrazioni dipende dalla loro capacità di riavviare lo sviluppo per evitare tensioni sociali; ma anche perché, se gli Stati Uniti fallissero nell’intento di finanziare sull’estero il proprio fabbisogno, lo farebbero all’interno con mezzi monetari. La Federal reserve si è dichiarata pronta ad acquistare titoli del debito federale e ciò porterebbe prima o dopo al collasso il valore esterno del dollaro, decurtando il potere di acquisto delle riserve ufficiali cinesi, con possibili reazioni antiamericane, un aggravamento della caduta delle esportazioni cinesi e disordini sociali. La Cina potrebbe reagire mantenendo i cambi fissi e assorbendo a riserva ufficiale i nuovi dollari creati, finendo con il finanziare gli Stati Uniti in altro modo. Tanto vale che lo faccia nel modo tradizionale, ossia acquistando titoli di Stato americani.
Naturalmente l’euro potrebbe rivalutarsi a seguito di conversioni di dollari. La Banca centrale europea deve entrare nell’ordine di idee di servirle fuori mercato o iniziare ad accumulare anch’essa dollari a riserva sostenendo il valore esterno dell’euro. Ma ciò richiederebbe una precisa scelta dei Paesi membri dell’euroarea e il consenso della Bce, perché imporrebbe un cambiamento dei canali di creazione di base monetaria e una sua minore indipendenza. Paolo Baffi, indimenticabile governatore della Banca d’Italia e grande studioso della moneta, raccomandava il ricorso al canale estero di creazione monetaria, avendo la proprietà di stabilire una più stretta relazione con i bisogni dell’economia produttiva rispetto al canale banche.
Ritornando al dollaro, non è pensabile affidare al mercato la soluzione del problema del finanziamento dei fabbisogni degli Stati Uniti e di altri Paesi, perché si avrebbero movimenti nel valore del dollaro e nei tassi dell’interesse i quali, aumentando le incertezze, creerebbero difficoltà alla ripresa più di quanto non siano in condizione di risolverne. Il tutto richiederebbe una soluzione “a tavolino” del problema dei finanziamenti globali a valore del dollaro immutato e regimi di cambio non più differenziati, ossia una modifica delle attuali insoddisfacenti regole di governance degli scambi mondiali; oppure un salto di qualità nell’uso dei diritti speciali di prelievo, usandoli per finanziare gli Stati Uniti ed i Paesi in deficit nelle bilance estere correnti. Sorprende che un tale invito sia provenuto dal presidente del Senegal Wade in un Bouquet for Obama pubblicato a sue spese sul Financial Times del 3 marzo, e non dai Capi di Stato del G8. Questa scelta costringerebbe ciascun Paese a stabilire un proprio rapporto di cambio con lo standard del Fondo monetario internazionale, isolando le fluttuazioni di una moneta nazionale da quelle delle altre, come accade oggi con il dollaro; spingerebbe inoltre il mercato a riconsiderare i fondamentali delle economie e non a scrutare i comportamenti delle autorità nazionali in materia di politiche monetarie, di cambio estero e di gestione delle riserve ufficiali per decidere come comportarsi.
È l’uso duale del dollaro come moneta nazionale e standard monetario globale che tiene in uno stato di permanente instabilità gli scambi mondiali, oltre che le diversità nei regimi di cambio e gli squilibri nelle domande interne. La crisi matura in questo triangolo di difetti di governance, ma ancora il G8, o chi per lui, ignora la centralità di questo problema. L’esperienza della sterlina inglese è stata di insegnamento per chi l’ha voluta apprendere ed è il motivo per cui Keynes espletò il tentativo di creare una moneta internazionale as good as gold, ossia buona come l’oro, trovando White contrario. Gli americani inseguivano infatti sogni di gloria per la loro moneta. Come oggi vanno facendo gli europei con l’euro. Una stessa moneta per due usi diversi, interno ed esterno, manterrà in costante disequilibrio lo sviluppo nazionale e globale perché non sarà mai in condizione di perseguire allo stesso tempo gli interessi nazionali e quelli globali. Se si prediligono i primi, tutti gli squilibri ricadranno sul resto del mondo (e viceversa). Questo era stato compreso fin dalla firma dell’Accordo di Bretton Woods e iniziarono subito i lavori per la creazione di uno standard monetario internazionale, che vide la luce mezzo secolo dopo, nel 1968, con l’Accordo di Rio de Janeiro. Gli americani e, questa volta, anche i tedeschi sottoposero i diritti speciali di prelievo a tali vincoli nelle quantità e nei tassi dell’interesse da renderli inoperanti e il grande disegno finì in un piccolo accordo, i cui pochi barlumi di luce vennero spenti con la decisione americana di pochi anni dopo, per l’esattezza nel 1971, di denunciare unilateralmente l’Accordo del 1944.
Oggi si riparla di una nuova Bretton Woods, ma nell’agenda non appare la soluzione al problema del dollaro, che diviene sempre più urgente e importante. L’Italia ebbe in Guido Carli e Rinaldo Ossola, rispettivamente governatore e vice direttore generale, nonché ambasciatore monetario, della Banca d’Italia, i leader politici in materia; e in Michele Fratianni e Paolo Savona, gli ideologi della moneta internazionale, nonché nella rivista Banca Nazionale del Lavoro Quarterly Review la principale sede del dibattito. L’Italia ha ora l’occasione di riprendere l’iniziativa internazionale nel corso della presidenza del G8. Pare che gli americani, e non solo loro, non siano d’accordo di mettere in agenda una discussione sui Diritti speciali di prelievo; se anche fosse, vale l’insegnamento di Carli di sollevare in modi corretti un problema internazionale, indicando una soluzione; anche se viene respinta, porta al Paese e ai proponenti prestigio politico e personale.           
          
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