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Il miglior attacco? È la difesa

Il sentimento di ogni economista di fronte a questa recessione può paragonarsi a quanto provò il meteorologo di fronte alla “tempesta perfetta” nell’omonimo film con George Clooney: un cataclisma naturale che sconvolge l’oceano Atlantico, derivante da un rarissimo combinarsi di eventi capaci di generare sommovimenti e sconvolgimenti unici, paradossalmente atteso da anni per studiarne le meccaniche. Ma, come la tempesta per il meteorologo, la recessione rappresenta anche il tallone d’Achille dell’economista, rivelatosi incapace di prevederla e dunque mal posizionato per fornire suggerimenti utili per uscirne. È infatti questione dirimente, anche se poco spesso posta sul tavolo, quella del come ridare credibilità al mestiere dell’economista.
            Ed è qui che nasce una evidente contraddizione, che ci rende oggetto di gentile o aspro ludibrio ogni qualvolta confessiamo la nostra professione di economista in una serata a cena con nuovi conoscenti. Questo nostro desiderio di divenire il taumaturgo di quest’epoca incerta stride drammaticamente con il nostro fallimento nel non aver previsto in tempo questa crisi. Se una crisi di questo tipo è sfuggita a voi economisti, ci chiedono tutti, quale può essere la vostra valenza, voi classe sociale così loquace e ben pagata, i cui sofisticati modelli appaiono al più come irresponsabili ed inutili divertissement?
            L’unica modo per rispondere a tale rilevante quesito richiede la capacità di guadagnare una qualche distanza e individuare con oggettività le ragioni di questi errori. Ognuno porti la sua oggettiva risposta, s’intende, ma è bene forse cominciare da qui, armandoci di maggiore rigore analitico, piuttosto che dal cimentarsi nell’indovinare la soluzione giusta: il rischio è di aggiungere ulteriore confusione ad uno dei momenti più delicati del dopoguerra.
            E allora via alla discussione. Da un lato è evidente come alcuni economisti, così come alcuni regolatori, “non potevano non sapere”, in particolare, delle evidenti storture del credito bancario e della struttura della regolamentazione bancaria. Perché non hanno dunque parlato per tempo? Non è dato saperlo, ma è evidente come anche qui – e non solo nei Consigli di amministrazione delle banche e agenzie di rating coinvolte – i conflitti di interesse debbano aver regnato sovrani ed abbiano reso sconveniente rivelare per mezzo stampa dell’arrivo della tempesta perfetta. Se così fosse, sarebbe il caso di fare attenzione quando una nuova soluzione per questa crisi viene portata avanti: data la natura di aiuto a qualche categoria che molte mosse di politica economica suggerite oggidì paiono possedere, e tenuto conto della scarsità di risorse disponibile nelle casseforti degli Stati, sarebbe bene escluderle a priori e concentrarsi piuttosto su misure che abbiano come destinazione la più ampia quota di cittadini ed imprese possibili e non settori specifici, come ad esempio quello bancario. 
            Secondo poi, vale la pena argomentare come il modello di analisi di cui si dotano gli economisti sia stato semplicemente carente. Lo testimoniano gli errori marchiani nelle stime di previsione delle più grandi organizzazioni sopranazionali, in cui lavora la crema della professione dell’economia: Fondo monetario internazionale, Commissione europea, Banca centrale europea, per citarne solo alcuni, dove agiscono persone dotate di notevolissime capacità  a cui  si può dunque solo imputare di muoversi all’interno di un approccio culturale e scientifico verso l’economia sbagliato. Probabilmente per aver tenuto poco da conto se non, addirittura, escluso, il contributo di almeno due altri rami delle “scienze sociali” che tanto possono dare per l’interpretazione dei fenomeni: la storia e le scienze politiche. Appare assai evidente infatti come sia stato da molti anni sottostimato da un lato il contenuto “politico” delle decisioni “economiche” ma anche l’importanza dell’economia nell’influenzare le strutture politiche, distrazioni che un’analisi storica più attenta avrebbero evitato.
            Meglio essere più chiari al riguardo. L’avere proposto negli ultimi trent’anni la creazione di svariati tipi di autorità indipendenti come controllori dell’attività economica, illudendoci che queste da sole avrebbero potuto tenere lontana la politica dalle decisioni economiche, era un’idea non solo illusoria ma pericolosa. Creandole, abbiamo infatti generato processi decisionali più lontani dalla volontà della collettività e più vicini alla volontà di  gruppi ristretti di individui, ovviamente quelli più interessati alle decisioni di tali istituzioni: i controllati. Non dovrebbe dunque sorprendere che le decisioni delle istituzioni di vigilanza abbiano consentito le inosservanze ed i reati perpetrati, in particolare nel settore finanziario. Non a caso negli anni Trenta la soluzione fu quella per la politica di riappropriarsi di alcune competenze chiave nel settore della finanza, nazionalizzando e segmentando il mercato bancario e ponendo vincoli agli investimenti. Invece oggi quando si affida ad un gruppo di banchieri l’elaborazione di  una proposta di riforma della vigilanza finanziaria in Europa pare proprio che tali errori vengano perpetuati, dimenticando quanto diabolico sia perseverare nell’errore.
            Il mio valente collega economista finanziario Mario Anolli mi sottolinea come il modello da manuale di testo delle economie di scala travolgenti nel mondo bancario, ampiamente sospinto dalla crema della nomenklatura economica nell’ultimo decennio, che ha portato a suggerire aggregazioni e fusioni, si sia basato su di un errore (trucco?) logico fondamentale. Come pensare di concentrare infatti tanto potere e tanto rischio per l’economia nelle mani di pochissimi attori così capaci a quel punto di influenzare anche i processi politici e di regolamentazione?
            E ancora. In Europa negli anni Trenta l’economia ebbe un’influenza decisiva sulla politica, con la conseguenza che la crisi economica travolse le istituzioni democratiche, fino alla guerra ed al crollo delle relazioni pacifiche tra Paesi dello stesso continente. Se dobbiamo imparare qualcosa dal passato è dunque che la crisi odierna mette a rischio, fortemente a rischio, le istituzioni europee pazientemente costruite dal dopoguerra in poi. È possibile infatti che non pochi Paesi membri della Ue di fronte alla recessione reagiscano scaricando sull’Europa la responsabilità della situazione che si trovano impreparati a fronteggiare. Allora quali sono le politiche economiche che più possono aiutare per schivare una crisi politica che venga causata dalla crisi economica?
            Certamente politiche monetarie fortemente espansive sono necessarie per evitare il pericolo della deflazione. E ci sono finalmente segnali che anche la Bce si stia adeguando, parlando finalmente di occupazione e non più solo di lotta all’inflazione. Meglio tardi che mai. Ed è anche vero che politiche espansive della domanda pubblica sono le prime a candidarsi come supporto a tali politiche monetarie, data una domanda privata che tende a scemare in attesa che si restauri la fiducia di consumatori e imprenditori. Ma la scarsità di risorse a disposizione dei governi europei porta a richiedere di utilizzare con grande sapienza le poche cartucce a disposizione. Non saranno certo programmi di sostegno a questo o quel settore, compreso quello bancario, a salvare le istituzioni europee dal rischio di uno tsunami politico causato dalla crisi.
            Quello che occorre è dunque un programma di domanda pubblica che sia: 1) di dimensioni pan-europee,  2) capace di sopperire a breve alla potenziale disoccupazione delle fasce più a rischio della popolazione, 3) capace di stimolare innovazione e competitività, 4) capace di unificare il continente sotto una medesima unità politica di intenti.
            Un candidato possibile? Ne vedo uno solo ed è la spesa per la difesa. È ormai giunto il momento   che  i nostri spaesati politici europei reperiscano le risorse per raddoppiare da meno del 2 attuale a più del 4% del Pil la spesa pubblica per la difesa, portandola al livello degli Stati Uniti, creando un unico esercito europeo, capace di avvicinare 25 Paesi ancora separati culturalmente (come fece la leva italiana avvicinando i giovani del Meridione a quelli del nord) ed un’Agenzia continentale del settore militare, per generare forti aumenti di innovazione tecnologica che si estenderanno  poi al settore civile, aumentandone competitività e ricchezza. È francamente difficile pensare che un’area che abbia un esercito comune possa spezzettarsi a causa di una tempesta anche più paurosa di quella che intravediamo oggi. Per tre ordini di motivi: perché un comune sentire di patria unisce ben più che un comune biglietto di carta seppure chiamato moneta, perché tecnicamente diverrebbe difficile organizzare uno smantellamento di un esercito e infine perché si creerebbe una lobby potente (seppur democratica) contraria a qualsiasi tentativo di insurrezione nazionalista.
            È tempo di pensare seriamente a costruire le fondamenta di pace e prosperità del nostro Continente per il XXI secolo. La crisi attuale consente  misure coraggiose.
                         
           
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