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Nell’Argentina degli Anni ‘70 del secolo scorso, i militari decidono di decimare un’intera generazione di giovani, per prevenire la svolta democratica verso cui il Paese si sta dirigendo.
Potrebbe sembrare un’impresa impossibile, ma gli unici veri problemi sono di natura attuativa. Occorre infatti evitare l’errore commesso meno di tre anni prima dai colleghi cileni, il cui arrogante ricorso all’uso della forza, riportato dalla televisione in tutto il mondo, li ha condannati all’ostracismo internazionale.
La strategia adottata dai militari argentini è imperniata sulla desaparición, con cui culminerà il calvario di tortura ed esecuzione di 30.000 giovani: i più politicizzati e generosi, gli stessi che negli Anni ‘90 sarebbero dovuti diventare la classe dirigente del Paese.
In un sistema mediatico mondiale all’epoca già prevalentemente iconografico, esiste soltanto ciò che viene rappresentato. L’invisibilità dei cadaveri smentisce l’esistenza della violenza, lascia un margine di speranza ai famigliari,  rende possibile il bagno di sangue senza che la società prenda coscienza di quanto sta accadendo e si ribelli. Grazie al silenzio delle democrazie occidentali, che certo sapevano, impedisce il formarsi di un’opinione pubblica internazionale che possa esercitare sgradite pressioni,  come successo nel confronti del Cile di Pinochet.
La strategia dei militari non è soltanto incongrua rispetto ai mezzi di comunicazione di massa. Essa esula dalle categorie di pensiero che la mente umana è storicamente in grado di riconoscere, perché, se  da una parte l’uomo uccide da sempre,  come tutti gli animali,  è dagli albori della civiltà, dall’altra, che  permette ai famigliari di effettuare  le onoranze funebri del nemico ucciso.
Ci vorrà tempo prima che in Argentina e nel mondo si capisca il piano di aberrante ingegneria sociale che i militari stanno portando a termine. Sarà dalle viscere lacerate delle madri, significativamente definite “pazze”, che l’impensabile prenderà corpo. L’unica forma di resistenza che i militari non riescono a schiacciare sarà proprio quella rappresentata da un gruppo di casalinghe costrette dall’orrore a  organizzarsi, scendere in piazza, muoversi politicamente. Che riusciranno a trovare strategie  in grado di riportare iconograficamente in vita i loro figli scomparsi: prendendo a marciare tutti i giovedì in Plaza de Mayo, con in testa un fazzoletto bianco che richiama il pannolino dei neonati e  appesa al collo la foto del figlio scomparso finiscono per attirare l’attenzione dei media, per bucare lo schermo dell’informazione impossibile.
Le madri non rinunciano alla loro missione neanche quando diventa chiara la sorte subita dai figli. A partire da quel momento la lotta punta al ritrovamento dei resti, al recupero dei neonati portati via alle giovani che erano incinte al momento del sequestro e venivano uccise dopo il parto, allo studio di politiche finalizzate al nunca màs , il mai più alla barbarie e all’orrore.  In tale ultimo ambito appare subito la centralità del fare chiarezza sui crimini di lesa umanità commessi dai militari e ottenere giustizia, vale a dire costruire la memoria e ricostruire l’identità del popolo argentino, oltre che dei neonati spesso finiti in mano a famiglie di militari torturatori.
Intorno alle madri andranno prendendo vita associazioni sia di parenti di desaparecidos – tra cui “abuelas” e “hijos” – che di sopravvissuti e militanti dei diritti umani tout court.
Ma la verità che tutti insieme lottano per riaffermare resterà terrorizzante, indicibile, elusiva. Negabile e di fatto negata, perché quando sapere può portare alla morte, si riesce a contemporaneamente sapere e non sapere,  se del caso anche oscillando tra l’uno e l’altro a seconda delle esigenze della sopravvivenza fisica, mentale, per così dire morale.
Relegata nell’inconscio collettivo in quanto troppo destabilizzante,  la verità resterà  incistata negli animi anche dopo la fine della dittatura. L’introiezione del terrore impossibiliterà nei fatti il libero esercizio del protagonismo che il ritorno alla democrazia  riconosce, almeno formalmente, al popolo argentino.
Incapacitati a riconoscere il trauma e la sua portata, gli argentini assisteranno senza poter reagire al sistematico saccheggio di uno dei Paesi più ricchi di risorse naturali al mondo. E continueranno a negare,  cercando rifugio nell’amnesia e nell’amnistia, in un’impunità che a sua volta conferma e alimenta la negazione.
Ma la  lotta dei famigliari per il riconoscimento della verità e l’attuazione del suo corollario, la giustizia, non verrà mai meno, attraverso un proliferare di iniziative internazionali e la costante ricerca di nuove modalità di denuncia.
Tra le prime, occorre ricordare i processi contro i militari argentini portati avanti con tempi lunghissimi e ostacoli di ogni tipo in alcuni Paesi europei, tra cui l’Italia.  Ma il fatto che, sia pure all’estero, procedimenti penali ordinari sfociassero in quelle condanne definitive che la magistratura argentina era incapacitata a produrre, convalidava le ragioni di chi in Argentina sosteneva che non vi può essere pacificazione senza giustizia.
Tra le nuove modalità di denuncia, vale la pena ricordare  il cosiddetto “escrache”,  termine dello slang rio platense,  traducibile con qualcosa di simile a “sputtanamento”.
Nella passività del sistema giudiziario, i figli di desaparecidos, molti dei quali  portatori di un’identità faticosamente recuperata, si organizzavano per denunciare alla popolazione coloro che si erano macchiati di sangue all’epoca della dittatura, mediante colorite marce a suon di tamburo fino alla loro abitazione, affissione di manifesti con la faccia del repressoretorturatore e distribuzione di volantini presso i negozi  del vicinato, lancio di vernice rossa contro l’appartamento, ecc. In genere gli escraches producevano l’allontanamento dell’incolpato, che tuttavia veniva nuovamente rintracciato e rimesso alla berlina.
Ci vorranno 25 anni  prima che, ridotti alla fame, espropriati di presente e senza più futuro, gli argentini riescano a tentare di scrollarsi di dosso il soffocante sistema socioeconomico ereditato dalla dittatura. E con la catarsi della rivolta potrà farsi strada nella coscienza collettiva quel passato che non passa e che le madri ogni giovedì  continuano a portare in piazza, con terapeutica inflessibilità.
Grazie al lavoro delle madri e di tutte le organizzazioni dei diritti umani, in Argentina oggi la memoria dell’orrore è riuscita ad affermarsi in maniera egemone.  E per quanto tra difficoltà di ogni tipo, la giustizia sembra aver ripreso il suo corso.
Tra le tante cose, il caso argentino risulta emblematico anche nel far comprendere che la memoria non è un dato, bensì un’opera “in progress”, che incontra nel suo percorso resistenze di ogni tipo. Sta alla società civile trovare la forza e la creatività per portarla a buon fine.
La costruzione della memoria resta passaggio inevitabile per il recupero di un’identità non mutilata, individuale, come nel caso dei figli di desaparecidos ritrovati, o nazionale che sia. Entrambe, memoria e identità, rientrano a pieno titolo nella complessa problematica dei diritti umani, i limiti, vale a dire, posti dalla comunità internazionale all’operare degli Stati nei confronti dell’individuo, delle minoranze, dei popoli. Entrambe,  tuttavia, restano continuamente esposte agli attacchi di revisionismi e negazionismi di vario tipo.
Si è detto dei processi portati a termine dalla magistratura italiana nei confronti dei militari argentini per l’omicidio di alcuni dei cittadini italiani desaparecidos. Rimane ancora tutto da ricostruire il comportamento tenuto dal sistema produttivo, dal ceto politico, dai media e in una parola dall’Italia nel suo complesso,  nei confronti dei militari argentini, mentre si stavano macchiando di sistematiche violazioni dei diritti umani in un Paese la cui popolazione era in gran parte di origine italiana.
Fare a questo punto memoria e storia, se non giustizia, anche sul versante italiano di  quanto accaduto in Argentina, contribuirebbe ad evidenziare i meccanismi che all’epoca regolavano e tuttora regolano i rapporti tra Stati. Contribuirebbe, in tal modo, a riaffermare l’importanza di una politica internazionale e nazionale basata sul rispetto dei diritti umani – faticosamente elaborati a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, per evitare il ripetersi delle atrocità che l’avevano caratterizzata – al fine di progressivamente ridurre le lacerazioni che al mondo contemporaneo continuano a derivare dalla realpolitik.
 
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