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A che punto è la notte

Le idee possono avere vinto e continuare a vincere anche quando i loro portatori perdono e non hanno più il potere politico. La notevole perdita di seggi “socialdemocratici”, intorno ad un centinaio, nel Parlamento europeo deve certamente essere considerata una potente indicazione che i rispettivi partiti non sono riusciti a prospettare politiche europeiste credibili e apprezzabili, ma anche che, con poche eccezioni, hanno consistenti difficoltà all’interno di ciascuno Paese. Tralasciando l’innegabile successo dei partiti anti-europeisti di destra, i socialdemocratici classici perdono voti sulla loro sinistra, a favore di partiti di sinistra a loro volta anti-europeisti. Sarebbe inadeguatamente consolatorio per i socialdemocratici – laburisti, riformisti o progressisti, se si preferisce, ma tutti, in qualche modo, appartenenti alla stessa grande famiglia e riuniti nell’Internazionale socialista – pensare che quei voti rientreranno nell’alveo antico. Tuttavia, anche se lo sport più diffuso, non da oggi, consiste nell’affermare con compiacimento che le esperienze socialdemocratiche sono, di volta in volta, in crisi, logorate, superate, mi pare, invece, che alcune delle  pratiche socialdemocratiche stiano prepotentemente tornando sulla scena politica, economica e sociale. Mancano all’appello gli ex-comunisti italiani che, nella loro tutto meno che brillante prolungata e incompiuta (non hanno mai fatto un riesame approfondito della loro storia) trasformazione, stanno ancora cercando una “terza via” fra il comunismo dell’Unione Sovietica e le socialdemocrazie scandinave. Adesso, sembra che nella versione, del tutto sconosciuta al resto dell’Europa, di Partito democratico, la loro originalissima terza via si collocherà fra il Partito socialista europeo e i liberal-democratici.
   Certo, è facile vedere come i laburisti inglesi vengano effettivamente trascinati a fondo dalle non poche difficoltà incontrate e irrisolte da Gordon Brown e come i socialdemocratici tedeschi rischino un’altra sconfitta elettorale nel settembre di quest’anno. Ma non è la ricognizione di vittorie e sconfitte, tutte fisiologiche nelle democrazie (sarebbe utile disegnarne e ridisegnarne  una mappa sempre mutevole e aggiornabile che, per esempio, includa le recenti vittorie dei laburisti australiani e del Partito del Congresso in India), che possono rendere conto dello stato della socialdemocrazia nel mondo. Persino, il titolo del libro di Giuseppe Berta, Eclisse della socialdemocrazia (Il Mulino, 2009), che non è affatto esaustivo limitandosi alla critica degli inglesi e in subordine dei tedeschi, suggerisce, molto involontariamente, che si tratta di una scomparsa temporanea (che cos’è un’eclisse che può addirittura essere parziale?) di esperienze che hanno plasmato la politica, la società, l’economia e, persino, la cultura quantomeno di tutto il mondo occidentale. Un conto, comunque, è la scomparsa di un pensiero socialdemocratico, tutta da provare; un conto molto diverso sono le innegabili difficoltà politico-elettorali di molti partiti, ma nient’affatto di tutti.
   Il neoliberismo stesso non sarebbe (stato) concepibile  in assenza delle socialdemocrazie e della concezione dello Stato e della società formulata dai molto studiosi e intellettuali in senso lato socialdemocratici. Tutti coloro che hanno variamente esultato per la vittoria elettorale di Obama riconoscono in alcuni, nient’affatto pochi, suoi accenti e interventi qualcosa di irrimediabilmente socialdemocratico: “più Stato”, per salvare qualche banca e qualche impresa, “più welfare”, per migliorare la qualità della vita dei cittadini americani, qualità che, peraltro, non è mai stata migliore di quella dei cittadini delle socialdemocrazie scandinave secondo lo Human development index elaborato da uno stuolo variegato di autorevoli consulenti  delle Nazione Unite. In termini più netti: “keynesismo più welfare” è stata, è ed è difficile pensare che non continuerà ad essere la saporita e gustosa, molto apprezzata, ricetta delle socialdemocrazie contrapposta alla superata, ma non banale, ricetta leninista: “Soviet più elettrificazione”. Altri tempi, altri luoghi, altri problemi.
   Oggi che è possibile sostenere con molte buone ragioni che non soltanto i neo-conservatori, ma anche i neo-liberisti sono stati ampiamente sconfitti e che il loro pensiero e le loro azioni hanno prodotto guasti politici, economici e culturali molto estesi e molto costosi, quali alternative praticabili, con un pensiero forte, ma nient’affatto unico (perché le socialdemocrazie sono e sono state pluraliste) sono emerse? La risposta, fino a prova contraria, è che le uniche alternative alla socialdemocrazia si trovano proprio sul suo terreno. I Paesi piccoli fanno fatica a diventare trend-setter, ma l’esperienza socialista di Gonzalez  e di Zapatero non può essere rimossa. La terza via laburista di Blair è forse finita nel vicolo cieco di Gordon Brown, ma ha rinnovato l’Inghilterra. Socialisti portoghesi e Pasok greco hanno contribuito in maniera significativa alla democratizzazione e alla modernizzazione dei loro sistemi politici, economici e sociali. Con un po’ di buona volontà, non è esagerato annettere alle socialdemocrazie anche i due mandati presidenziali di Lula in Brasile. Alla luce delle buone prestazioni dei socialisti cileni, ci si potrebbe anche chiedere se l’instabilità e la debolezza riformatrice degli altri sistemi politici latino-americani non dipendano più che dal famigerato “Washington consensus” (ovvero le politiche liberiste imposte anche dal Fondo monetario e dalla Banca mondiale), dall’assenza di partiti socialdemocratici degni di questo nome e delle proposte politiche conseguenti.
   Naturalmente, “pescare” singoli casi di successo non esime dal tenere conto del fatto duro da esorcizzare che, complessivamente, non soltanto gli esiti elettorali, ma persino le capacità di innovazione politica dei socialdemocratici sembrano in declino. E se non emergono singoli poderosi sfidanti capaci di sostituire quello che sono state le socialdemocrazie, vediamo sprigionarsi a destra e a sinistra una frammentazione non ricomponibile che colpisce il funzionamento dei sistemi politici e comprime la fiducia dei cittadini nella politica democratica.
   De Italia fabula narratur. Se scivoliamo indietro rispetto alla Francia, ma soprattutto alla Spagna, non è plausibile sostenere che una delle ragioni, probabilmente la più importante, sta proprio nel fatto che non abbiamo mai avuto un partito socialdemocratico di nome e di fatto? Ed è davvero credibile che potremo farne a meno, ovvero che, come al solito, rimarremo l’anomalia, sicuramente nient’affatto positiva, e andremo oltre lo stadio socialdemocratico senza averlo mai frequentato? Insomma, il nostro Stato sa come intervenire nell’economia e sa come fare funzionare (e riformare) il welfare in maniera da garantire sviluppo, equità, eguaglianza? Con un po’ di wishful thinking  posso ancora affermare che la socialdemocrazia non si è eclissata nel  resto del mondo e ipotizzare che riuscirà a fare la sua ricomparsa. Nel caso italiano, invece, attendiamo che spunti dietro le grosse e spesse nuvole di un regime che, definito sultanato o neo-patrimonialismo, appare molto lontano anche dalle meno efficaci e più traballanti esperienze socialdemocratiche. Ma, certo, non ci si può attendere da un declinante Partito democratico, privo di basi culturali, e dai suoi inadeguati dirigenti qualsiasi slancio in direzione di politiche di rinnovamento che vadano oltre la socialdemocrazia senza averla mai né frequentata né apprezzata.           
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