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La strategia di Israele nel cuore del Mediterraneo

La fine della Guerra fredda e della sua struttura bipolare, unite alla globalizzazione economica e finanziaria, hanno trasformato il mondo ebraico, così come hanno modificato i sistemi politici e i modelli culturali degli Usa, dell’Unione europea e, lo vedremo in seguito, di Russia e Cina.
Le direttrici tramite le quali possiamo osservare la trasformazione del mondo ebraico sono: il diverso rapporto tra l’ebraismo della Diaspora e lo Stato di Israele, il risorgere dell’antisemitismo in molte aree europee e mediterranee, il modificarsi delle alleanze dello Stato di Israele in Occidente e, per quel che riguarda l’Asia, con la Cina.
Infine, osserviamo il sorgere in Medio Oriente e nel Golfo Persico di potenze regionali che intendono distruggere lo Stato di Israele al fine di definire una loro egemonia che vada dall’Asia Centrale e dall’area della Shangai organization fino al Mediterraneo centrale, per arrivare all’Oceano Atlantico e confrontarsi direttamente con gli Stati Uniti d’America. Il vuoto lasciato dalla caduta dell’Urss è stato riempito, non ancora definitivamente, da una lotta multipolare per l’egemonia regionale in Medio Oriente che vede in lotta l’Iran, gli Emirati Arabi, l’Arabia Saudita, l’Egitto. La prospettiva di una diminuzione significativa della presenza statunitense nell’area e l’evidente riluttanza dell’Unione europea a sostenere direttamente lo Stato ebraico, pur con l’eccezione dell’Italia, ha trasformato la percezione della minaccia che Israele subisce ed ha posto, forse per la prima volta dalla sua fondazione, lo Stato ebraico nella necessità di operare una vasta azione politica multipolare, sia verso la Cina che verso la Federazione Russa. L’antisemitismo attuale è ben diverso da quello che abbiamo conosciuto durante la Guerra fredda. Nel mondo bipolare, l’antisemitismo dei Paesi arabi e del mondo palestinese era legato all’ideologia della “liberazione nazionale” e vedeva in Israele una longa manus dell’occidente e in particolare degli Usa, i competitori storici del blocco dell’Est e dei suoi alleati mediorientali.
Oggi, l’antisemitismo utilizzato dalla propaganda islamista riutilizza i “Protocolli degli Anziani di Sion” e rifiuta di riconoscere l’oggettiva verità della Shoah, l’odio antiebraico dell’islam contemporaneo rinnova molte delle tipologie antisemite che caratterizzarono la propaganda hitleriana, ed infatti la stessa negazione della Shoah, per quanto folle possa essere, ha due significati impliciti: stimolare l’islam radicale a compiere la distruzione dello Stato di Israele e degli ebrei, al posto dei nazisti, e delegittimare la stessa esistenza dello Stato ebraico imputando ad Israele nei confronti dei palestinesi quella stessa ferocia che caratterizzava il nazismo hitleriano e il fascismo.
Israele è oggi davvero in pericolo, come sono in pericolo le comunità ebraiche della Diaspora, colpite dalle azioni jihadiste in Europa, in America latina, negli Usa, nei Paesi dell’Est europeo e in Russia. Il jihad è una strategia asimmetrica che, diversamente dal tradizionale confronto duale tra Israele e l’area politico-militare palestinese sostenuta dalle nazioni arabe, collega lo scontro regionale ad una nuova strategia globale, finalizzata ad evitare che le aree periferiche del globo siano integrate nel nuovo sistema globale dell’economia.
Il jihad è una strategia che lotta duramente contro la globalizzazione di tipo occidentale, e per questo esso ricollega la lotta ad Israele ai nuovi focolai di guerriglia islamica in Afghanistan, Iraq, Libano, Maghreb e, in futuro, le aree islamizzate di molti Paesi europei.
Ecco perché il jihad non ha termine: perché esso cesserà davvero, trasformandosi, quando la globalizzazione occidentale avrà conquistato il mondo islamico, oppure dovrà arrendersi a non superare i confini della comunità islamica mondiale. Come si intuisce da questa osservazione, la somma tra ebraismo della Diaspora e Stato di Israele non basta più: essa è troppo piccola rispetto alla massa di manovra dell’islam radicale e dei suoi sostenitori silenziosi attivi in tutto il mondo. Jihad della Spada, Jihad Permanente e Jihad della Parola sono inestricabilmente uniti oltre i confini, dentro il mondo occidentale e all’interno del nuovo Medio Oriente allargato. In quest’area il vecchio confronto tra Stato ebraico e mondo palestinese ha perso forza rispetto alla nuova molteplicità di minacce alla sicurezza di Israele che provengono da movimenti islamisti legati a vari Paesi dell’area, che non vogliono, come accadeva durante la Guerra fredda, uno “Stato”, ma l’eliminazione di Israele e il ricongiungimento dell’area costiera alla intera comunità islamica globale. Alla globalizzazione occidentale, l’islam radicale risponde con la globalizzazione della sua comunità religiosa universale.
Quindi vi è una guerra asimmetrica tra uno Stato (Israele), i suoi alleati, e una configurazione non statuale che non deve difendere confini, modella la sua guerra sulla base di dottrine estranee alla cultura occidentale e raccoglie il sostegno o almeno l’operoso silenzio di molta parte del mondo islamico fuori dal Medio Oriente. Finora, gli Usa e l’Ue, oltre agli organismi internazionali, hanno letto la tensione tra Israele, palestinesi e mondo arabo come una crisi regionale. L’intero processo di pace in Medio Oriente, da Oslo a Camp David fino a Madrid e a Wye Plantation, è stato basato sull’assunto geopolitico che la crisi mediorientale fosse un affare regionale. Una tensione continua su una faglia che definiva un clash of civilization, come quello che Samuel Huntington aveva studiato, nei Balcani, tra civilizzazione ortodossa e islamismo ottomano. Oggi, temo che questo non sia più l’approccio più efficace per comprendere la questione e per risolverla. Il confine tra Israele e i Territori dell’Anp o il Libano non è un’area di crisi regionale, ma l’asse in cui l’islam globale e la sua guerra asimmetrica, il jihad, tentano di rompere i confini ed arrivare, incontrastati, al Mediterraneo.
Osama Bin Laden l’ha più volte ribadito, che la nuova espansione islamica deve arrivare e superare i territori conquistati da Tariq nel 711 d.C. Dall’altra parte, abbiamo una geopolitica, quella iraniana, che mira principalmente alla separazione definitiva di Europa e Stati Uniti, esemplificata nella paradossale richiesta, fatta da Mahmoud Ahmadinedjad, di far ritornare gli ebrei di Israele in Germania ed Austria, le aree del vecchio Terzo Reich che è indubbiamente colpevole della Shoah. Separare l’Europa dagli Usa significa destabilizzare l’Unione europea, costringerla ad una economia asservita ai cicli del petrolio e degli investimenti dell’area Opec, evitare che proprio l’amico più vicino ad Israele, nel Mediterraneo, possa proteggere lo Stato ebraico da una guerra finale mirata alla sua distruzione. Un islam che arriva a chiudere tutto il Mediterraneo orientale e a rompere il legame tra Ue e Usa ha vinto la sua partita geopolitica finale. E l’ha vinta proprio perché ha programmato la distruzione dello Stato ebraico, che è l’unico Stato che possa permettere la continuità strategica, economica, culturale tra occidente e oriente islamico.
Come si vede, la globalizzazione ha reso universale e fondamentale la questione della sopravvivenza e dell’espansione dello Stato ebraico, ed ha messo in luce la necessità di una forte unità tra l’ebraismo della Diaspora e la politica estera di Israele. Non si tratta più, qui, di definire questioni importanti ma marginali, come i confini tra Territori e Israele, o il sistema degli scambi economici tra lo Stato ebraico e i Paesi arabi moderati, o ripetere la formula “due popoli-due Stati”, che non risolve la questione di fondo: Israele sarebbe di fatto circondato da uno Stato islamista a forte crescita demografica, che non ha nessun interesse a reprimere le reti jihadiste operanti al suo interno, in crisi economica strutturale e quindi sempre tentato di ricattare Israele o di sfogare le sue tensioni interne con una guerra allo Stato ebraico. La questione israeliana e, quindi, quella ebraica devono ritornare allora ad essere al centro della Grand Strategy europea e statunitense, perché non si tratta solo di sostenere un Paese amico e alleato, ma di difendere, sostenendo Israele, la nostra stessa libertà e prosperità. Quindi, si tratta di rileggere di nuovo, con nuovi occhi, il nesso tra Stato ebraico, Comunità della Diaspora, Unione europea (con le aree non completamente integrate in essa) Stati Uniti d’America e, in particolare, il nuovo quadrante dove si giocherà non solo la stabilità, ma anche il futuro dello Stato di Israele: il Mediterraneo.
Non a caso, se guardiamo le due cartine, abbiamo una proiezione di potenza di Teheran verso il suo meridione petrolifero (Arabia Saudita, Yemen, Iraq, e la Russia dei “mari caldi” e del contatto tra Mosca e il mercato petrolifero e gaziero europeo) e soprattutto verso l’area mediterranea fino alla Tunisia, all’Italia meridionale, che sarà punto di arrivo delle linee di rifornimento degli idrocarburi dell’area centrale asiatica, e alla Turchia, alleato storico nel mondo islamico laicizzato dello Stato di Israele.
Quindi, la minaccia più vicina, Teheran, legge Israele nel suo naturale quadrante di riferimento del Mediterraneo, dove ha sempre trovato Paesi amici (Italia, la Francia che ha fornito le tecnologie nucleari per Dimona, la Turchia laicista della tradizione di Ataturk, la stessa Tunisia che opera attivamente nel Maghreb contro il jihad della Spada) per chiudere lo Stato ebraico nell’area ostile del suo meridione (l´Arabia Saudita wahabita, l’Iraq sciita, il Sudan e, in futuro, la Nigeria del nord islamizzata) e rompere la sua continuità naturale verso il Mediterraneo europeo e islamista moderato. Una Battaglia di Latakia al contrario.
La Battaglia che vide la vittoria straordinaria della Marina militare israeliana durante la guerra del Kippur diviene così il modello della chiusura strategica, economica, politica tra Israele e il suo naturale sistema di difesa e continuità strategica nel Mediterraneo, che è peraltro l’asse della sua crescita economica futura. Lo Stato degli ebrei si è definito nella sua dimensione terrestre da una colonizzazione per lo più agricola, sui Territori del Vecchio Trattato della Partizione e i suoi successivi aggiornamenti, che erano stati definiti sull’area che va dalla vecchia Cisgiordania alle coste del Mediterraneo.
Oggi, quell’universo strategico non esiste più da tempo, per nessuno dei global player dell’area e fuori da quell’area.
Oggi la nuova dimensione geopolitica dell’area va da nord, nel canale che collega l’Asia Centrale e il sistema panturanico alla Turchia, e a sud, nell’area che va dal Golfo Persico fino alle coste degli Emirati (non a caso oggi utilizzati dall’Iran come elementi di contrabbando di pezzi di ricambio militari) e al Corno d’Africa. L’asse strategico che interessa anche alla Cina, che intende colonizzare economicamente l’area suddetta per esternalizzare le sue linee produttive mature e importare materie prime.
Il vecchio Medio Oriente che abbiamo ereditato dalla Guerra fredda non c’è più. Il “lavoro sporco”, nell’area del Medio Oriente tradizionale, ormai lo fanno, con o senza il supporto delle potenze regionali, le strutture del jihad della spada. Lanciare il sasso e nascondere la mano, mentre si lavora altrove. Oggi non si tratta più solamente di creare colonie per gli ebrei europei e dell’est slavo, o del Medio Oriente, ma la questione vera è quella di definire un futuro geopolitico globale per lo Stato di Israele, che non è più oggetto di strategie regionali da parte dei suoi alleati tradizionali, che sempre più si ritireranno dall’area, ma deve divenire soggetto di una strategia globale ebraica e israeliana.
Il dato territoriale era già un limite, allora, prima della Dichiarazione di Indipendenza di Ben Gurion, derivante dalla scelta unilaterale britannica del 1922 di restringere le aree del Mandato per gli ebrei e ampliare il Regno hashemita di Cisgiordania. Era uno Stato, Israele, che nasceva impossibilitato a difendersi, se non fosse stato per la correlazione strategica tra militarizzazione della società, tecnologia, sostegno internazionale e dottrina militare.
Oggi, ognuna di queste cifre della correlazione è cambiata, e dobbiamo quindi pensare ad una difesa di Israele, dal Mediterraneo, che crei sul mare amico la profondità strategica che Gerusalemme ha sempre dovuto conquistarsi sul terreno, con immensi e straordinari sacrifici.
Oggi, il quadro è diverso, infatti, Israele non è più una colonia di ripopolamento, ma uno Stato sovrano forte e deciso che deve gestire, nel nuovo sistema globale, la dimensione degli interessi ebraici ovunque si trovino, sia quelli di Gerusalemme che della Diaspora. La Diaspora ebraica deve divenire, in questa situazione di crisi, la strategia permanente e della parola degli interessi dello Stato di Israele. E il problema non è più la aliyah, che rimane comunque essenziale, ma il vero obiettivo è quello di mettere insieme in un contesto unitario gli interessi dei cittadini israeliani con quello delle comunità ebraiche di tutto il mondo, e collegare a questi due cerchi il terzo, non meno importante: quello dei Paesi amici di Israele e delle sue opinioni pubbliche rilevanti.
Fare, e lo dico con tono volutamente paradossale, come l’islam: riunire gli interessi israeliani, ebraici, degli amici di Israele per propagandare e tutelare l’interesse ebraico in tutto il mondo.
Nessuno Stato può essere, oggi, del tutto amico del Mondo ebraico: gli Usa devono verificare la loro geopolitica in Medio Oriente e nel Golfo Persico, e certamente non crocifiggeranno tutti i loro interessi petroliferi, spesso in contrasto con quelli della Ue, sul Golgota della pura e semplice difesa dello Stato di Israele, sarebbe chiedere troppo, soprattutto in una fase di crisi finanziaria dove un boom dei prezzi degli idrocarburi vanificherebbe in un attimo le ipotetiche speranze di ricostruzione economica e finanziaria degli Stati Uniti.
La Federazione Russa, uno degli Stati che sta vincendo il great game geoeconomico contemporaneo, avendo una serie di materie prime che fanno il prezzo insieme al sistema Opec e una scarsa penetrabilità della sua finanza da agenti esterni, ed anzi una forte penetrazione, legale e illegale, della sua finanza nei mercati esteri oggi in crisi, potrebbe essere interessata a gestire un nuovo rapporto con Gerusalemme.
Il tutto nella misura in cui lo Stato ebraico potesse fornire un “doppio binario” strategico con gli alleati arabi della Russia, per non doverla costringere a giocare su un solo tavolo alle condizioni dell’islam, e di permettere alla dirigenza postsovietica una linea di arrivo ai “mari caldi”, il sogno dello Zar Pietro I.
Tale chiusura del big deal tra Israele e Russia potrebbe spostare sul Golfo Persico, che gestisce il 40% del commercio globale dei petroli, una linea di controllo russa che attualmente si ripartisce tra Oriente occidente, tra alleati infidi nel Medio Oriente della vecchia Guerra fredda e alleati-concorrenti petroliferi e gazieri in Asia Centrale, verso l’Iran e il suo stretto di Hormuz.
Il problema strategico non è quindi la terra, ma il mare.
Non si tratta più solo di fornire terra agricola ai coloni ebrei che arrivano da tutto il mondo, ma la vera questione è di pensare ad Israele come ad una potenza regionale mediterranea sull’asse che divide il Mare della Ue, il Mediterraneo, dal Golfo Persico, l’asse marittimo che dà inizio e sostegno alle economie in crescita dell’Asia e, per molti aspetti, dello stesso occidente.
Israele come ago della bilancia, e come nuova linea di demarcazione e comunicazione tra aree in cui gli Stati devono riposizionarsi nel gioco della globalizzazione tra mercati dell’export come l’Ue e semimonopolisti del petrolio e del gas che questi beni permettono di produrre e di mettere sul mercato. Israele come asse occidentale e mediterraneo della nuova dimensione orizzontale della geopolitica mediterranea e occidentale: da Cipro e da Napoli verso Astana, e Pechino.
Il nuovo grande gioco dell’Asia Centrale, per usare la formula di Rudyard Kipling, o sarà incentrato su Israele o non sarà. E l’equilibrio strategico dello Stato ebraico sarà quindi nel Mare Mediterraneo, nel Mare che ha visto la comunità ebraica diffondersi, prima che altrove, nella Roma dei Cesari, nei Balcani della Haggadah di Sarayevo, nella Spagna di Cristoforo Colombo e nella Venezia di Leone di Modena.
Due potenziali strategici che si eguagliano: il Mediterraneo è il mare attraverso il quale Israele potrà gestire tutte le sue difese e i canali della propria crescita economica, mentre il Golfo Persico è l’area dentro la quale lo Stato ebraico, e attraverso di esso la Diaspora, potrà partecipare allo sviluppo delle nuove aree economiche che gestiranno il ritmo della crescita globale almeno fino al 2040.
Ecco: Israele e il mondo ebraico della Diaspora dovrebbero immaginarsi sempre di più come “potere globale” (e non a caso la propaganda islamista tenta di creare questo mito negativo con la retorica infame dei “Protocolli dei savi di Sion”) e divenire elementi di una strategia globale nel Mediterraneo. Il mare che può garantire la difesa di Israele, il mare che può internazionalizzare e far crescere la sua economia.
È un mare nel quale Israele non ha nemici assoluti, salvo i movimenti jihadisti del magre e le minoranze estremiste nei Paesi arabi moderati. Lo Stato ebraico ha rapporti amichevoli con l’Italia, asse mediamo del Mediterraneo e chiave strategica della difesa Nato sul Fianco Sud dell’Alleanza.
Attraverso il Mediterraneo lo Stato ebraico ha la possibilità di gestire rapporti proficui con la Spagna, dove perfino durante la Shoah le autorità franchiste concedevano passaporti spagnoli agli ebrei sefarditi, in ricordo della loro origine iberica.
E il Regno di Spagna controlla il nodo strategico di Gibilterra insieme alla Gran Bretagna, potenza anch’essa amica, asse della libertà dei mari europea e quindi israeliana. Non a caso Osama Bin Laden ha colpito subito Madrid con i suoi attentati alla stazione di Atocha l’11 marzo 2004, voleva colpire il punto di uscita dell’Ue e di Israele verso gli Usa. Era lo stesso obiettivo di Stalin quando sostenne la Seconda Repubblica Spagnola dal 1931 al 1939. Se cade l’uscita del Mediterraneo verso il mare globale atlantico e si restringe il nesso Europa-Usa e Mediterraneo-Atlantico, l’Europa e i suoi alleati divengono servi del potere asiatico terrestre dell’Urss, o della strategia, ugualmente terrestre, del jihad globale.
Questo potrebbe anche tenere a bada la tensione islamista nei Balcani, anch’essa precedente ad Al Qaeda e elemento fondante della strategia del gruppo di Osama Bin Laden. Una storia che le guerre balcaniche del 1990-1993 ci hanno ampiamente dimostrato.
Israele ha quindi un futuro mediterraneo, tra Paesi amici che permettono allo Stato ebraico le comunicazione strategica stabile tra Ue, le comunità ebraiche maggiori, i Paesi arabi moderati e, dopo il “monte di Tariq”, Gibilterra, con gli Usa, il Canada e i Paesi dell’America latina.
La necessaria internazionalizzazione della strategia israeliana ed ebraica passa attraverso una dimensione marittima, mediterranea, occidentalista della politica dello Stato ebraico.
La Turchia, lo abbiamo visto, è da tempo sotto la copertura aggressiva dei missili balistici iraniani: Ahmadinedjad, che conosce bene, per esperienza personale, la strategia anatolica verso l’Asia centrale del laicismo kemalista che ha fondato la Turchia moderna e le ambiguità dei protettori arabi di gran parte della classe dirigente turca attuale, gioca a separare la Turchia sia dall’Ue che dallo Stato ebraico.
Privo di un suo dente strategico sul territorio centroasiatico, chiuso nel lungo meccanismo di pace armata con la Siria, premuto di fatto da una esposizione strategica debole da parte di Hezbollah sul confine del Litani, che pone lo Stato ebraico in condizioni di debolezza a nord (come ben sapeva Ariel Sharon) lo Stato di Israele, dentro il cerchio terrestre e orientale del suo asse strategico, non ha la possibilità di sviluppare tutte le sue possibilità militari, strategiche, commerciali e geopolitiche.
L’unica possibilità è il mare, il Mediterraneo, per uscire da questa morsa politico-militare che è difficile rompere e, se anche tutti gli attori del “Quartetto” di Madrid volessero davvero, i tempi della fuoriuscita da questo deadlock terrestre e orientale sarebbero tali da rendere irragionevolmente lento e forse inutile lo scambio strategico tra Israele e i suoi storici nemici regionali.
L’altro elemento geopolitico da esaminare è il tentativo, gestito soprattutto dall’Iran, di creare una sorta di “Alleanza del Golfo Persico” tra Teheran, Federazione Russa, Cina e Paesi del Golfo, Emirati e Arabia Saudita inclusi.
Si tratta evidentemente di chiudere l’Ue e gli Usa in una area mediterranea ormai esclusa dai grandi traffici del sistema degli idrocarburi, rendere difficile all’Ue e ai suoi alleati l’accesso alla Cina e all’Asia Centrale, e gestire infine una sorta di “Opec strategico”, un’area di controllo militarizzato della linee di passaggio e delle Sloc marittime, per definire un sistema politico e non solo economico di controllo del cartello Opec e dei suoi alleati russi e cinesi.
Occorre evitare che la Cina si accodi a questo progetto. Altrimenti, Pechino si vedrebbe preclusa l’area mediterranea, le linee marittime atlantiche verso gli Usa, un mercato ancora vivace come quello dell’Ue e, soprattutto, la penetrazione della economia cinese in Africa e in Medio Oriente.
Due scelte che Pechino, immaginiamo, non intenda fare. Da questo deriva che, insieme alla Ue, all’area del Mediterraneo e ai Paesi arabi moderati, Israele e tutto il mondo ebraico devono concentrarsi su una nuova stagione di rapporti con la Cina e la Federazione russa.
Occorre far capire alla dirigenza moscovita che la vecchia “linea Primakov” di sostegno quasi sovietico al mondo islamico e all’area dei vecchi “Paesi del Rifiuto” è un progetto superato.
La Russia vuole sostenere la crescita politica e militare di Siria, Iran, e in futuro di Arabia Saudita e Yemen per garantirsi una scommessa petrolifera che faccia salire i prezzi del petrolio Opec in funzione delle necessità finanziarie dello Stato russo. Ma Mosca vende gas, oltre che petrolio, e lo vende a Paesi che non hanno alcuna intenzione di accettare una crisi prolungata di Israele messo sotto pressione dagli alleati geoeconomici di Mosca. Due contraddizioni ulteriori in questa posizione russa: la produzione petrolifera di Mosca è già abbastanza internazionalizzata, nella proprietà e nel ciclo estrattivo, da non aver bisogno di questo contrappunto strategico in Medio Oriente.
È vero che la Federazione russa finora ha favorito i trasporti di gas e petrolio via nord verso la Germania e ha una lettura ambigua e complessa della rete di idrocarburi Tblisi-Baku-Ceyhan, che arriva sulla costa turca.
La linea “Nabucco” che va da Erzurum a Bucarest fino alle porte di Vienna non è la preferita di Mosca, mentre la Russia ha impostato la linea di trasporto idrocarburi “South Stream” da Beregovaya sul Mar Nero fino a Varna, poi sulla linea di terra dalla stessa Varna fino al confine greco-bulgaro verso il Mar Ionio, in Italia.
Se leggiamo queste operazioni in termini strettamente geopolitici, la deduzione è unica: il Medio Oriente come lo abbiamo conosciuto durante la Guerra fredda sarà sempre più marginale nello scacchiere globale, e allora la soluzione è duplice. O arriviamo ad un Medio Oriente marginalizzato nel quale tutti i potenziali strategici tendono alla fine ad eguagliarsi, e questo significa che prima o poi Israele potrebbe divenire una preda contendibile per le alleanze regionali islamiste o arabo-occidentali in formazione. Oppure lo Stato ebraico diviene un attore geopolitico globale, insieme alla Diaspora e agli Stati amici, e si muove verso il Mediterraneo e l’asse Maghreb-Ue per securizzare i suoi confini marittimi, che permettono la crescita globale di Israele, e la costruzione di una nuova geopolitica ebraica internazionale, uguale e contraria al jihad permanente, della spada e della parola. Ad oriente, comunque vada, lo spazio di Israele è stabile ma chiuso. Ad occidente, lo Stato ebraico può creare sia la sua economia di surplus, in correlazione con la Ue e la sua relazione con la Cina, che una relazione di sicurezza con Mosca, che faccia intendere alla dirigenza russa ad ovest, quello che non è interessata a capire in Medio Oriente. Meglio una alleanza con Israele per gestire le linee di comunicazione verso ovest, per Mosca, che una continua e infida relazione con Stati economicamente concorrenti sul mercato petrolifero.
Per la Cina, Israele, che già fornisce tecnologia evoluta dual use di grande importanza per Pechino, può gestire una linea di rapporti che va dalla disponibilità per i commerci cinesi delle aree portuali israeliane, può inoltre sostenere, lo Stato ebraico, una immagine positiva e stabile della Cina, e affermare i suoi buoni uffici per permettere a Pechino il massimo di penetrazione verso i mercati maghrebini e del Corno d’Africa.
La Cina peraltro intende utilizzare ai suoi fini i rapporti di libero scambio progressivi tra area nordafricana e Ue continentale, per penetrare i mercati d massa europei.
Obiettivo che non dovrebbe essere estraneo allo stesso sistema produttivo israeliano.
Insomma, occorre definire una uscita, psicologica e culturale prima che geopolitica, di Israele e del mondo ebraico della Diaspora da una logica di “piccolo Stato” chiuso ad una nuova strategia adatta alla globalizzazione, che ha tratti economici ma anche strategici e militari.
Ovvero: Israele è un global power come l’islam, e deve operare con gli stessi criteri sia di guerra psicologica, di strategia globale che di comunicazione e di finanza internazionale.
Una “postura di attacco” dopo una lunga “postura di difesa”, attacco reso necessario proprio dalla configurazione aggressiva di tutte le fazioni dle mondo islamico e dei suoi alleati palesi e occulti.
Una antica tradizione genovese affermava che Cristoforo Colombo fosse di origine ebraica. Ecco: Buscar el ponente per el levante, Prendere l’Oocidente come e al fine di prendere l’oriente. È stato l’inizio della civiltà moderna. Potrà essere l’inizio, tra occidente europeo, Usa e Cina, di un nuovo triangolo strategico israeliano ed ebraico oltre le vecchie angustie di una Guerra fredda ormai morta e priva, oggi, di insegnamenti strategici efficaci.
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