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Il dono della ragione

La lettura di un’enciclica è un compito complesso, che è sbagliato effettuare con lo sguardo offuscato dalla cronaca, o dalla congiuntura (come si esprimono gli economisti), o in cerca di conferma (trascurando le smentite) dei propri convincimenti. E questo non è facile. Essa richiede, inoltre, lo sforzo di mettersi in sintonia con un pensiero ed un’analisi che comprende l’umanità intera ed i suoi destini, seppur calandosi nella storia dell’oggi e guardando a questa umanità non come un astratto aggregato ma come la comunione di singoli individui. Ma l’enciclica Caritas in Veritate ci fornisce, fin dalla sua introduzione, una guida alla lettura. Essa ci dice in primo luogo che la caritas non può essere disgiunta dalla veritas, poiché “solo nella verità la carità risplende”.
Ma la verità, come ci ricorda ancora l’enciclica, è fondata sulla ragione umana, oltreché sulla fede, e richiede l’umile esercizio dell’obiettività, che spesso è tanto scandalosa e rivoluzionaria quanto lo è la carità. Credo sia importante sottolineare questo legame tra carità e verità, denunciato nel titolo stesso dell’enciclica, perché mi sembra che esso sia stato sottolineato meno rispetto al messaggio sul ruolo della carità, del dono, dell’economia del dono, presentata, in alcune interpretazioni, come antitesi del libero mercato, del capitalismo, della finanza, della globalizzazione, dell’economia.
Ebbene la lettura attenta dell’enciclica non ci offre nulla di questo, ma al contrario un esempio di ricerca obiettiva della verità. Essa accoglie le analisi più profonde ed avanzate che sono proprie della moderna scienza economica, sociologica, politica e filosofica, riconoscendo quanto il mondo moderno ed il suo progresso tecnologico ed economico offrano la possibilità, mai stata così forte, di un vero progresso di tutta l’umanità.
Essa non guarda al passato ma al futuro, ed è un’iniezione forte di ottimismo, in tempi di profeti del catastrofismo, sulle possibili prospettive dell’umanità. Certo solo “possibili”, perché tutto ciò che noi oggi abbiamo conquistato, anche con il mercato, anche con la finanza, anche con la globalizzazione, a dispetto delle crisi passeggere, richiede la consapevolezza del fine ultimo, e questo fine è l’uomo nella sua integrità.
L’Enciclica ci chiama ad una riflessione di tipo “ontologico”, e quindi ad una critica, anche severa, della separazione della riflessione sui fini da quella sugli strumenti, istituzionali, tecnologici e scientifici a disposizione dell’uomo di oggi, e sui pericoli che questa separazione comporta. Paradossalmente, si potrebbe dire che nell’enciclica si trova una visione antropocentrica, di tipo umanistico, se non fosse che, come è logico, essa ci dice che non vi è umanesimo senza la fede. Un antropocentrismo, quindi, non in opposizione al teocentrismo, secondo la lettura quattrocentesca, ma indissolubilmente legato alla fede.
 
La centralità umana
Ed è questa la riflessione laica a cui siamo chiamati: come mai è la chiesa che oggi con più forza ci richiama all’uomo, al suo rispetto, alla sua integrità, a riconoscere il “fondamento antropologico” della questione sociale? Credo che a questa riflessione si è chiamati, e che all’interno di questa riflessione debba essere collocata l’importanza della carità e del dono, come modi di essere conseguenti all’accettazione delle finalità indicate.
 
Carità ed economia globale
Le singole critiche alle distorsioni, effettive e potenziali, del mercato, della finanza, della globalizzazione, delle istituzioni politiche e sociali sono bagaglio comune di gran parte del pensiero scientifico moderno e, quindi, della razionalità umana, a cui l’enciclica si richiama esplicitamente. La carità, essa specifica, non solo eccede la giustizia distributiva, ma la richiede come presupposto, perché non si può donare ciò che non è proprio, e neppure ciò che si ha illegittimamente. E poiché il libero mercato, nel senso di mercato competitivo, non è di per sé fonte di ingiustizia distributiva, e certo lo è meno dei mercati non competitivi o dominati dallo stato, si coglie la potenzialità positiva del mercato. Ed anche a riguardo della globalizzazione non può sfuggire come di essa vengano sottolineati gli effetti di progresso per tanti popoli, assieme alla necessità di includere tutti i popoli ed individui nel godimento dei suoi benefici, vedendo, al contrario, nelle pratiche protezionistiche dei paesi ricchi l’espressione di un egoismo miope.
 
Contro il relativismo
Ma, soprattutto, vorrei richiamare uno dei più potenti ed espliciti messaggi di questa enciclica. Essa, affermando il valore della ragione, della razionalità, ne deduce necessariamente, ed appunto razionalmente, la denuncia del relativismo culturale, in cui si perde il confine tra ciò che è bene e ciò che è male per tutti gli uomini. Relativismo culturale che è cosa diversa dal rispetto delle diverse culture, e la cui diffusione è uno dei maggiori pericoli di inquinamento e di distorsione di un corretto approccio allo sviluppo e ad un’equa globalizzazione.
 
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