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Se l’Italia fa sukuk

Un recente sondaggio tra la popolazione immigrata in Piemonte ha evidenziato che un terzo degli intervistati mussulmani rifiuta di interagire con i normali circuiti finanziari del territorio per convinzioni di carattere religioso; la maggioranza degli intervistati condivide l’apertura di uno sportello speciale per i clienti mussulmani all’interno delle banche. In Europa Occidentale esistono oltre 13 milioni di musulmani, di cui circa 830.000 unità residenti in Italia. Nel 2015 la popolazione mussulmana salirà dall’attuale 1,4% della popolazione italiana al 2,5%. Gli immigrati musulmani rappresentano, pertanto, un segmento di mercato molto rilevante ed in continua espansione, servito per il momento da 26 Banche islamiche e Convenzionali (con filiali o islamic windows) presenti in Europa, di cui 19 si trovano nel Regno Unito e ancora nessuna in Italia. Nonostante il mercato finanziario islamico rappresenti soltanto l’1% delle attività finanziarie mondiali, il tasso di crescita degli assets è pari al 10-15% annuo e negli ultimi cinque anni, i ricavi dell’Islamic retail banking sono cresciuti del 44% annuo circa. La recente integrazione della popolazione musulmana nel tessuto socio-economico europeo e i sostenuti ritmi di crescita delle dimensioni del mercato finanziario islamico portano l’attenzione del mondo finanziario sul forte potenziale di sviluppo della finanza islamica, ossia quel complesso di pratiche e attività finanziarie (bancarie e non) che rispettano i dettami della legge islamica (Shari’a).  Elementi caratterizzanti dei contratti, sia dei prodotti retail che degli strumenti finanziari, sono la presenza di forme di compartecipazione al rischio per gli impieghi e per la raccolta, il rapporto fiduciario sottostante, il divieto di interesse, incertezza, speculazione e di attività ritenute immorali.
In particolare, tra i contratti d’impiego si segnalano i Musharaka e i Murabaha.
I Musharaka sono simili alle Joint Venture nella finanza convenzionale e si usano per finanziare i progetti a lungo termine. Questa tipologia di contratto prevede che la Banca finanzi il progetto dell’imprenditore e che entrambi partecipino agli utili e alle perdite.
I Murabaha, invece, rappresentano uno degli strumenti di finanziamento più usati (circa il 75% del totale) e sono dei contratti di scambio in cui la Banca acquista un bene in nome proprio ma per conto del cliente per poi rivenderglielo ad un prezzo più alto, preventivamente concordato. Il pagamento di tale prezzo può essere rateale e differito. Dal lato della raccolta uno tra gli strumenti più comuni sono i conti di “condivisione”. Si trattano di conti di deposito a termine fondati sul principio della condivisione dei profitti e delle perdite tra la banca e il detentore del conto che autorizza l’istituto a gestire i propri fondi in cambio di spese di gestione; l’ente creditizio, tuttavia, non garantisce né il capitale originario né un rendimento al depositante. Anche l’ambito di applicazione dei contratti finanziari islamici è in crescita. Proprio per la veloce espansione della domanda di tali prodotti, oltre ai contratti di tipo retail, si sta sviluppando un’ampia varietà di strumenti finanziari appositamente realizzati per conciliare i dettami della Shari’a: tra questi una tipologia importante è quella dei Sukuk. Sulla scia di quanto accaduto a Dubai nelle passate settimane, con le difficoltà relative al pagamento del Nakheel sukuk per $3.5 miliardi da parte della Holding Dubai World, è esplosa l’attenzione e l’interesse per meglio capire i pericoli e le opportunità dei Sukuk come strumenti di finanziamento alternativo alle emissioni obbligazionari. I Sukuk sono certificati di investimento conformi alla Sharia e si possono considerare come l’equivalente, per la finanza islamica, delle obbligazioni. Questi devono corrispondere ad un progetto determinato, di solito un progetto immobiliare o infrastrutturale e i profitti corrispondono ai guadagni che tale progetto genera. Un sukuk ben strutturato limita il debito emesso al valore dell’asset sottostante. Le obbligazioni sul modello sukuk, cioè emesse secondo i dettami dalla legge coranica Sharia e riservate ai cittadini musulmani, raggiungeranno a fine anno i 122,7 miliardi di dollari in circolazione, secondo quanto prevede Moody´s. La stessa agenzia di rating in un recente studio ha evidenziato come nei primi 10 mesi del 2009 le emissioni di sukuk sono balzate del 40%, con una stima di crescita del 50% per fine dicembre 2009. Il mercato potenziale è enorme considerando che solo il fondo sovrano di Abu Dhabi, uno dei potenziali acquirenti di questi strumenti,  ha masse in gestione per 850 miliardi di dollari. L’offerta, finora, proviene soprattutto dagli Stati e dai soggetti governativi impegnati a finanziare progetti strategici nel campo delle infrastrutture, l’educazione e il turismo in Arabia, Qatar e Abu Dhabi. La liquidità sarà sicuramente uno dei temi ricorrenti nei prossimi due anni per il sistema finanziario considerando che entro il 2012 ci saranno 3.700 miliardi di euro di obbligazioni in scadenza solo da parte delle Banche dell’euro zona. Contemporaneamente l’avvio dell’exit strategy della BCE dal 2010 drenerà molta della liquidità a basso costo (1%) dal sistema. Il mercato dei Sukuk potrebbe rappresentare una valida alternativa non solo per le banche europee nella ricerca di diversificazione delle fonti di finanziamento ma anche, e ritengo soprattutto, una valida alternativa per i governi. La regione tedesca della Sassonia-Anhalt ha emesso per la prima volta nel 2004 i sukuk, con un programma di finanziamento di circa €100 milioni. Nel 2009 la Banca Mondiale, tramite la «International Finance Corporation», ha emesso i suoi primi sukuk-bonds per 100 milioni di dollari.  Per l’Italia l’emissione di Sukuk rivolta ad investitori istituzionali dei paesi islamici potrebbe rappresentare una fonte di finanziamento per la spesa pubblica futura collegata in particolare agli investimenti in infrastrutture. Se si considera la spesa per investimenti fissi da parte delle amministrazioni pubbliche, l’Italia si posiziona agli ultimi posti tra i Paesi Europei (2,2% gli investimenti fissi lordi rispetto al Pil a fronte del 2,5% della media dell’area Euro). Dopo una fase espansiva della spesa per nuove infrastrutture dal 1997 al 2004, le risorse pubbliche disponibili per nuove infrastrutture sono diminuite progressivamente.
 
 
A fronte di tutte queste opportunità oggettivamente molteplici, quali sono i limiti della diffusione della finanza islamica in Italia? Nel nostro sistema al pari di altri paesi europei esistono dei nodi di ordine fiscale e regolamentare che richiedono un attento esame e impegno da parte del legislatore e degli organismi di vigilanza (tipo Banca d´Italia) affinché tale implementazione possa avvenire al meglio. I nodi fiscali come l’imposta di registro ed il tema della deducibilità fiscale degli oneri finanziari sono rilevanti nella possibilità di poter introdurre i prodotti retail islamici tradizionali. Tuttavia i nodi regolamentari come la necessaria modifica del TUB nella definizione di attività bancaria/finanziaria, i criteri di adeguatezza patrimoniale/standards di gestione del rischio/principi contabili appaiono oggi i nodi cruciali da risolvere. In Italia, prendendo in esame solo il lato degli impieghi bancari,  i contratti che potrebbero rispettare il divieto di interessi posto dal Corano sono le operazioni riconducibili al factoring, al leasing ed il mutuo a titolo gratuito mentre operazioni legalmente applicate dalle banche islamiche per aggirare il divieto della Ribā (interesse) come le operazioni di semplice intermediazione nella circolazione di beni non sembrerebbero rispettare i dettami del TUB.
 
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