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Fiori di carta/ Acciaio di Silvia Avallone

Un romanzo, anzi persino un romanzone, con tanto di scenari storici e sociali, di tensioni e conflitti pubblici e privati, di personaggi buoni e cattivi, più o meno simpatici, che attraverso le vicende narrate raggiungono o mancano l’obiettivo, ma in ogni caso intendono il destino che gli tocca e ne riconoscono il senso e la direzione.
Acciaio di Silvia Avallone (Rizzoli, pp. 360, euro 18,00) sorprende per l’energia con la quale resuscita il romanzo realista e per la determinazione con cui persegue un disegno che sino a questo momento sembrava disperato.
Se la scommessa sia stata vinta, se davvero Acciaio sia di nuovo un romanzo realista è lecito interrogarsi con prudenza, perché l’insieme sta su miracolosamente, come un effimero castello di carte che induce a trattenere il fiato, perché potrebbe bastare un soffio ad azzerare l’incanto; ma intanto è qua, di fronte ai nostri occhi, pressoché compiuto, persino con una morale, che deve andare bene per il mondo sconvolto dal crollo dalle twin towers l’11 settembre 2001 e per la microscopica esperienza  di due ragazzine di Piombino, cresciute nei casermoni dell’edilizia popolare costruita lungo il mare quasi cinquant’anni fa e ormai pronte a spiccare il volo nell’adolescenza, quando finalmente «il mondo arriva» e la vita esplode, al tempo stesso  generosa e terribile.
Avallone procede lenta, dapprima forte di un’esperienza quasi autobiografica – «a Piombino ho fatto tre anni di liceo, all’età delle mie protagoniste» -, ma poi allarga progressivamente lo sguardo abbracciando le famiglie, gli appartamenti, i condomini con i loro cortili, le spiagge di fronte brulicanti di vita, e ancora la fabbrica con l’altoforno che brucia senza sosta, i suoi operai con i turni massacranti e il caldo che ti scioglie, e il mondo lontano che ti raggiunge via radio o sui teleschermi, e il mare e, al di là di esso, l’isola d’Elba, che splende come un sogno, come la terra promessa.
Così Anna e Francesca d’estate sguazzano allegre, mentre «sotto i vestiti» il loro corpo letteralmente «esplode», reclamando ben diverse attenzioni, tutt’altre esperienze e nuove, inaudite libertà.
La fabbrica, «qualcosa come dieci milioni di metri quadrati», con l’insegna «in stampatello: lucchini S.p.A.», domina il territorio giorno e notte, ne scandisce le ore, e genera quel po’ di benessere che si può consumare, ed è ancora essa che tiene insieme passato, presente e futuro, garantendo la continuità tra le generazioni, alimentando sempre nuovi sogni di fuga e alla fine incatenando tutti al proprio destino.
Il mondo cambia in gran fretta e anche la fabbrica per resistere è costretta ad adattarsi: degli altiforni oramai solo uno è in funzione e ogni tanto qualcuno programma nuove ristrutturazioni e licenziamenti. Così nessuno è sicuro e, a star dentro quell’inferno di rumori e vapori, «retrocedevi allo stato  animale».
Nella fabbrica il mondo è ancora diviso in due classi che «sono in lotta fra loro», ma fuori le cose si complicano e ci sono i terroristi e gli americani che si sfidano nel cielo, oppure i maschi e le donne, e queste subiscono ogni sopruso, i lavoratori e gli imbroglioni scansafatiche, e poi, irrefrenabile, c’è una voglia di vivere, di amare, di uscir dalle righe, di sfidare usi e abitudini per illudersi che non sarà sempre uguale, che c’è dell’altro, di meglio, uno sballo.
«La realtà – scrive Avallone – vince comunque, qualsiasi cosa fai o pensi», «la realtà esige»; ed è qui, da questa constatazione semplice e umile, che il suo romanzo comincia a lievitare inatteso e improvviso, per contenere intera la vita e poi il mondo, la storia, il lavoro, gli amori, le gioie e i disastri, i sogni, le speranze, le attese e le delusioni, come se davvero tutto stesse dentro quel contenitore che rimescolando ogni cosa trova il modo di rimettere ordine e offre la possibilità di leggere il destino che ci accomuna, e tutti insieme formassimo un coro nel quale ognuno ha la sua voce, ma l’insieme è più bello e più forte della semplice somma dei singoli.
E’ vero il racconto non procede lineare e compatto, ogni tanto sbanda pericolosamente ed è lì per trasformarsi in qualcosa d’altro: un melò che inclina al patetico sentimentale, un prevedibile racconto d’iniziazione sessuale, non privo di intimismi piscologici,o, con maggiore riluttanza, un piccolo noir provinciale, dove i padri sono bestie e le madri vittime instupidite non si sa da chi; ma poi, senza incertezze, riacquista il controllo e riprende il cammino, ritrova il filo e ricomincia a dipanarlo paziente e ostinato, fino alla fine.
Del secolo nuovo, che ormai ha consumato la sua prima decade, questo Acciaio a me sembra un libro esemplare come pochi altri sinora apparsi, perché intreccia senza vergogna il desiderio di rimettere ordine, la voglia di recuperare i ferri di un mestiere dismesso, la passione per il lavoro fatto bene, per una scrittura limpida e pulita, per le descrizioni a proposito, le informazioni precise, e insieme la fiducia con la quale accende la fantasia e l’invenzione, insegue l’estro anche più bizzarro.
Non so se da qui ricomincia l’avventura di un romanzo corale e realista, ma certo Anna e Francesca resisteranno nella memoria come le intrepide protagoniste di un mondo nel quale – come dice in exergo De Lillo – «le cose migliori riplendono di paura».
 
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