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Fiori di Carta/ Tutta mio padre di Rosa Matteucci

Dal padre, o ancora meglio dalla sua assenza dopo una morte improvvisa e irragionevole, ha origine tutt’intera la vocazione narrativa di Rosa Matteucci, ormai consolidatasi attraverso cinque libri mai superflui, e trae forza ed energia anche la cifra inusuale di una scrittura inequivocabilmente espressivista e declinata sulle corde di una comicità sprezzante, che scivola irrimediabilmente verso il grottesco, persino incattivendosi con insolente crudeltà.
C’è, insomma, al fondo del suo bisogno di raccontare, la storia di una perdita inconsolabile, resa più dolorosa da una passione per un  uomo che in nulla e per nulla corrisponde a un qualsiasi modello positivo della tradizione e della civiltà conosciute.
Fare i conti con un dolore tanto invasivo e profondo quanto sorprendente e inspiegato sta al centro di una riflessione esistenziale evidentemente autobiografica, anche se i fatti potrebbero essere tutti d’invenzione, che ci coinvolge proprio perché tocca le radici misteriose di una complicità affettiva senza evidenti e misurabili contropartite, complicità che, nonostante l’invadente e ossessivo condizionamento del senso comune che tiene puntuale rendiconto di ogni dare ed avere, coinvolge invece il nostro universo emozionale costretto a prendere atto che più forte di qualsiasi avveduta amministrazione degli affetti è la deriva, persino autodistruttiva, della passione, che disobbedisce arrogante a ogni regolamento e soprattutto rifiuta qualsiasi bilanciato equilibro.
Prima di arrendersi alla lampante irragionevolezza, alla forza devastante del fuoco che la accende, la passione viene rivisitata con rabbiosa insofferenza, per misurare fino all’ultimo l’intimo degrado, lo stupefacente squallore, la miseria materiale e la fragilità culturale, l’inconsistenza economica, il perenne disordine del mondo, e tutto questo e altro ancora diventa l’oggetto di ogni perfidia caricaturale, di un’irriverente parodia, nella quale le cose – oggetti, vestiti, ville, appartamenti – si trasformano in altrettanti testimoni di uno sconquasso che ha travolto la vita, senza tuttavia spegnere quell’incendio d’amore che indifferente divampa.
Se Lourdes (1998) racconta di un viaggio attraverso la disperazione della malattia per domandare alla Madre la ragione della scomparsa del padre, se Cuore di mamma (2006) evoca il conflitto comico e doloroso tra madre e figlia sull’orlo della resa dei conti, quando la vita sfiorisce, questo nuovo Tutta mio padre (Bompiani, pp. 290, euro 17,50) affronta spavaldo il toro per le corna e ricostruisce passo passo infanzia e adolescenza della narratrice, il difficile rapporto con il padre e tutti i familiari, la progressiva e radicale decadenza della schiatta, il peregrinare su e giù per la penisola, il quotidiano arrangiarsi senza speranza e soprattutto i fantastici deliri di un padre che, inarrendevole, reinventa ogni giorno la vita, ingegnandosi a trasformare i disastri in imprevedibili avventure, fino al giorno in cui la sorte definitivamente lo tradisce in un fatale incidente di automobile.
La chiave per intendere questa storia familiare è evidente nel titolo: nonostante tutte le differenze che si potrebbero pazientemente elencare, nonostante non coincidano sesso, generazione, studi, impegno e millanta altre cose, Rosa è «tutta suo padre», uguale a lui, spiccicata, e quando, di fronte alla morte di lui, ne prenderà finalmente atto, sarà troppo tardi e non le resterà altro che un assurdo rimpianto di un mondo pazzo e sgangherato che intanto è scomparso, un rimpianto davvero inconsolabile perché in qualche modo anche colpevole.
La condizione nella quale Rosa vive e cresce è di orfana «con genitori viventi», perché loro intanto vengono travolti dalla disfatta familiare alla quale non riescono a opporre neppure un gesto di resistenza.
La famiglia materna è nobile di origine e all’origine possidente e benestante, poi l’imprevidenza del nonno provoca un generale tracollo e ciascuno dei membri, impotente di fronte al disastro, difende solo qualche reliquia del mondo che è stato, al più affidando all’azzardo l’opportunità di un riscatto.
Di questa epopea all’incontrario il padre è protagonista indiscusso, perché, «gli occhi grandi di color azzurro», elegante come un «figurino», è un signore, bello e fascinoso, che rinnova le speranze accumulando biglietti della lotteria, giocate al lotto, visite al casinò e persino pratiche medianiche o esercizi di magia, deciso in ogni caso a rifiutare il destino piccolo borghese di un «quieto tran tran».
Eppure è lui che ha voluto la nascita della figlia, che l’ha amata in ogni occasione, che l’ha resa sua complice «per sempre».
Se il racconto della dissipazione di una famiglia nobile e antica si accende nella prosa di Matteucci di inattese invenzioni linguistiche che attingono a qualsiasi riserva della tradizione e dell’uso, se l’ossessiva bulimia descrittiva costruisce interminabili elenchi di paesaggi, oggetti, persone, quel che alla fin fine si impone è il sentimento di una solitudine senza altro conforto che l’ansiosa e disperata ricerca di un perdono impossibile.
La passione, però, è davvero così.
 
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