Skip to main content

DISPONIBILI GLI ULTIMI NUMERI DELLE NOSTRE RIVISTE.

 

ultima rivista formiche
ultima rivista airpress

Fiori di carta/Spavento di Domenico Starnone

La voglia di scherzare, o almeno di cogliere il lato paradossale dell’esperienza, non manca del tutto a Domenico Starnone neppure di fronte a un autentico Spavento (Einaudi, pp. 290, euro 20,00), che lo inchioda a misurare, ormai anziano, la distanza che lo separa dalla morte annunciata da crescenti segnali di disfacimento dell’organismo o soltanto da preoccupanti previsioni funebri, persino nei sogni della moglie amata.
Starnone ha giusto la mia età e ben capisco quest’ansia che lo assale: vorrebbe al tempo stesso accettare il comune destino senza disperarsene, tant’è naturale, e esorcizzare la paura e l’angoscia che nonostante tutto lo tormentano e assillano.
Per non cedere ai toni inevitabilmente elegiaci e malinconici di ogni riflessione sulla fine, Starnone immagina che il racconto iniziale sia l’invenzione di uno scrittore più giovane, che a sua volta si ammala finendo in ospedale, diventando così protagonista di una vicenda quasi parallela a quella del suo personaggio.
L’intreccio delle esperienze impedisce al lettore una diretta identificazione coi personaggi, l’uno lasciato a lungo in sospeso, senza esito, per l’intrusione dell’altro, che è anche un bel po’ più giovane, tanto da non essere neppure classificabile come un vecchio, e quindi soltanto costretto a confrontarsi con una normale malattia che i medici affrontano e curano senza affanno.
Al centro c’è la questione della vecchiaia, o meglio del sentimento di essa, e del momento in cui è giusto prendere atto di avere percorso gran parte del cammino terreno: un tempo, quando c’erano ancora le stagioni, anche quelle della vita, era facile riconoscerle e la pensione segnava senza equivoci l’inizio della decadenza, o dell’inverno; ma oggi, soprattutto per chi non ha scelto lavori usuranti e anzi continua a darsi da fare ben oltre la pensione, la vecchiaia non sembra arrivare mai; ad allontanarla ci pensano la medicina, la moda, i viaggi, il benessere e tutte le diavolerie moderne e postmoderne che dispensano la convinzione di sentirsi giovani, l’illusione di esserlo ancora.
La vecchiaia, poi, persino quando c’è, dura a lungo, come se non dovesse finire mai, e si rifiuta di identificarsi con la decadenza, anzi rivendica un’autonoma pienezza di vita, con creatività, sentimenti, interessi, passioni, altrettanto vivi e vitali di quelli di ogni altra stagione dell’esistenza.
Così il nemico è solo lo «spavento», la paura di morire, il sentimento di una fine prossima, di un addio indilazionabile, di un’assenza definitiva, che non si riesce mai ad accettare e che al tempo stesso svela la nostra interiore fragilità e rende evanescenti i valori cui abbiamo dato tanta importanza.
Torna l’antica, proverbiale, saggezza: «a sei ani se xé putei e a sesanta se torna quei»; di nuovo bambini, inermi e inesperti, teneri e deboli, patetici.
Se Pietro, il protagonista del racconto interrotto, pensa di arrendersi, di cedere senza resistenza al destino che lo incalza, immaginando la vita senza di lui, o addirittura sentendo di non esserci già più; allo scrittore sembra troppo presto per non opporsi, anzi è persino scaltrito dalla conoscenza del suo personaggio, dall’avere in qualche modo già vissuto nell’immaginazione quel che ora «all’improvviso» gli capita nella vita reale, cosicché può andare più a fondo e misurarsi col cambiamento culturale del ‘900, che ha smaterializzato «l’io», diventando, quindi, «solo verbo ad alto tasso simbolico», «libero dalla determinatezza della carne», ma anche rendersi conto che «mettersi a raccontare della vecchiaia, della malattia, della paura di morire», non è altro che una «sciocchezza», perché non è di nessuna utilità, tanto «si può morire soltanto male, malissimo».
Insomma, lo spavento, diventando oggetto di un racconto, rimette in discussione il racconto stesso, la sua possibilità di costruirsi, di avere un senso, di confrontarsi con la verità.
La realtà dei fatti «è puro disordine», mentre il racconto cerca una storia che, al di là di quanto si è visto o vissuto, raccolga le fila: «un racconto interrotto sembra una città straniera che è stata bombardata… I collegamenti non funzionano più, i ponti sono saltati, le stazioni sono andate distrutte, le piste di atterraggio sono polvere e fumo».
Così, tornandoci sopra dieci anni dopo, lo scrittore, ormai quasi coetaneo del suo personaggio, vuole «raccontare quale disegno era costretto a rispettare quel racconto», ed è finalmente pronto a narrare «con molti dettagli cose che ricorda poco o niente».
«Il panico è un’onda» che pare impossibile che non ti travolga, aveva notato di fronte alla malattia, ma ora, tornando al racconto dello «spavento», cerca la parola giusta per evocare quello stato d’animo e trova un napoletanissimo «sparpetuo», che assomma il palpitare e il perpetuo, l’emozione e la perennità.
Si può, dunque, misurarsi col destino che incombe; in fondo è come ricordare un sogno, o addirittura inventarlo. E’ temere la malattia che non c’è, come ogni ipocondriaco sa bene; è accettare che la storia ha un senso nel momento stesso in cui diventa racconto, proprio come l’orrore dello spavento si trasforma nel tremito dello «sperpetuo».
A questo punto si può persino nuovamente sorridere della paura, della verità, della scrittura, e continuare felicemente il racconto nella certezza che la verità non coincide con l’esperienza.
 
×

Iscriviti alla newsletter