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Fiori di carta/ Bea vita! di Romolo Bugaro

Sono passati trentacinque anni dall’ultimo racconto centrato su Padova che io ricordi, sulla città e le sue contraddizioni, su un’identità sfuggente e al tempo stesso estrema, radicale, sulla fascinazione che emana e sulla voglia di fuggire, di andarsene chissà dove.
Allora, nel 1975, il libro era Occidente di Ferdinando Camon, il ritratto drammatico di una città dilaniata dal terrorismo di destra e da quello di sinistra, che si dibatteva prigioniera della sua stessa intelligenza, precipitando nell’abisso di una perdizione morale e sociale.
Oggi è Romolo Bugaro, più giovane almeno di una generazione, che riparte proprio da lì, da una città “incandescente, lacerata dal conflitto e dalla violenza politica”, per raccontare il disagio di chi, guardandosi attorno in  preda a “un senso di isolamento, incompatibilità ed esclusione”, si domanda “che ci faccio in questo posto?”
È un ragazzo Bugaro negli anni settanta, un adolescente irrequieto e scontento che “simpatizza per gli estremisti più estremi”, che recita “la parte dell’insorto dell’irriducibile”, e, ciò nonostante, “non era dei loro”,  restava un “visitatore residente” che contemporaneamente aveva frequentazione “di tutt’altro genere”, rispetto alle quali era altrettanto “distante”.
Bell’inizio per un’avventura che trent’anni dopo arriva a oggi, prima al “miracolo” e al benessere del Nordest, al suo consumismo sognato o praticato, all’ossessione del superlavoro che non si ferma se non sul ciglio del precipizio, e poi della crisi, del disastro al tempo stesso atteso e improvviso, dove tutto svapora in un istante senza lasciare traccia, impietosamente cancellato dall’oblio.
Del “crudo nordest” esistono ritratti più o meno affidabili, generalmente costruiti attraverso inchieste o interviste che confermano tesi moralisticamente preconcette: a diventare ricchi si perde l’anima subito e poi, piano piano, il cuore e l’identità, si diventa aridi, egoisti, persino infelici.
Bugaro apparentemente non si allontana granché dallo stereotipo, anche lui – il suo io narrante così disarmantemente autobiografico – è malinconicamente isolato, irrimediabilmente triste, a disagio, ma, anziché argomentare per sostenere una tesi, osserva attento e curioso, guarda a una a una le ragazze che “camminano tenendosi a braccetto, allegre e leggere sui passi”, su e giù per via San Fermo, fermandosi “attente e concentrate” davanti alle vetrine alla moda, senza frustrazioni, perché è ovvio che “le cose belle costano care”; oppure, le “giovani donne mobili stellanti”, che non si limitano a guardare, ma fanno acquisti preziosi che si possono permettere finalmente perché hanno fatto carriera.
Eppure «il maggior freno allo sviluppo sembra lo sviluppo stesso» e ogni meta raggiunta, ogni successo, ogni istante di felicità, nasconde un maligno che ci attende al varco, e così il benessere se lo mangia la crisi, il piacere di spendere un cancro che toglie il sonno e le forze, lo stipendio i debiti che fanno fallire l’impresa.
La «bea vita», che è appunto quella che si può permettere chi finalmente smette di restare inchiodato al tavolo di lavoro, anch’essa può svanire da un momento all’altro, precipitando in una «tristezza senza nome», in una disperazione sconsolata, in una vecchiaia precoce che comincia persino a quarant’anni: «la crisi, nella vita concreta delle persone, è un lampo di luce bianca che rende straordinariamente nitidi i contorni delle cose».
Bugaro, come molti scrittori della sua generazione, come molti degli eredi di Pier Vittorio Tondelli, è scrittore umbratile e malinconico, ragionevolmente e razionalmente triste, perché non c’è in giro granché di cui rallegrarsi, ma, rispetto ai produttori di stereotipi, sceglie una strada diversa, è lucidamente disincantato, rigorosamente analitico: ferma lo sguardo sul mondo che ha attorno e lo restituisce sulla pagina limpido, persino trasparente.
Ha ragione Ferdinando Camon, la parola-chiave del libro è «stellante», perché appunto scolora la tristezza con la sua imprevedibile vitalità ma senza farla mai scomparire del tutto, per il senso di spaesamento e di lontananza che conserva irrimediabilmente, e ha persino di più ragione a scrivere che «il libro è semplicemente splendido nella descrizione», perché Bea vita! (Crudo Nordest, Laterza, pp. 100, euro 9,50) non solo offre di Padova l’immagine più scaltra e genuina che si sia letta, ma annuncia in un sorprendente «congedo» la rivalutazione del «sorriso» e della «fiducia». Alla fin fine, riconosce Bugaro, «ci vogliono le canzoni tristi per sentirsi bene», ed è questa la bella lezione  che ha imparato a nordest.
 
 
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