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Fiori di carta/ La doppia seduzione di Francesco Orlando

Aveva poco più di vent’anni quando scrisse con foscoliano disincanto l’amara avventura di un innamoramento infelice, un amore impossibile persino da confessare, giacché rivelava le tentazioni omosessuali di uno studente alla ricerca di un compagno con cui condividere desideri e sentimenti. La storia accadde a Palermo negli anni a cavallo tra i Quaranta e i Cinquanta e coinvolse pochi amici, dei quali uno soltanto manifestava precoci ambizioni letterarie e curiosità intellettuali, avvicinandosi alla musica, soprattutto operistica, ma anche alla psicanalisi, che gli offriva una straordinaria e rassicurante chiave interpretativa della propria incerta identità sessuale. Attorno a loro il demi-monde della mondanità culturale meridionale con la sua presunzione d’eccellenza e le miserie di una meschineria provinciale, al tempo stesso suggestivo e deprimente, perché, mentre si apre alle novità di un inquieto dopoguerra, resta ostinatamente fedele a desuete tradizioni di un’aristocrazia impoverita e decaduta. Che la vicenda narrata si appoggi a esperienze dell’autore è immediatamente evidente a chi solo un po’ conosca la storia di Francesco Orlando e ricordi le sue frequentazioni di Giuseppe Tomasi di Lampedusa e degli altri giovani discepoli dello scrittore – dal barone Giovanni Agnello, al figlio adottato Giovanni Lanza – e, infine, della moglie di lui, psicanalista che veniva dall’estremo nord della Lituania, Alessandra Wolff- Stomersee; eppure le coincidenze restano in superficie, si riducono a poco significative somiglianze, perché il racconto, nonostante le apparenti cadenze memorialistiche – proustiane, sono state sbrigativamente catalogate – pretende di penetrare i misteri della psicologia, per mettere in mostra conflitti morali e scambi di ruolo, che a loro volta rinviano a un definito contesto sociale e culturale, per i quali non c’è altra soluzione che la tragica conclusione di un’esistenza radicalmente alternativa al mondo presente. Il giovane Ferdinando, protagonista del breve romanzo La doppia seduzione (Einaudi, pp. 156, euro 13,00), ha origini colte e remote – a me ha evocato lo Jacopo Ortis delle lettere foscoliane, ma di suicidi di giovinetti per disperazione d’amore ce ne sono ben altri – però ha anche caratteri inequivocabilmente propri, quasi impossibili in altri luoghi ed altri tempi, al punto che gli echi più dichiaratamente letterari servono quasi soltanto ad accendere lampi di una corrosiva ironia che aggredisce non tanto le radicali consuetudini borghesi, quanto l’astratta e velleitaria aspirazione libertina di un protagonista davvero “doppio” nella sua contemporanea sudditanza ai valori di un perbenismo cui non riesce a sottrarsi. Orlando, che nel mezzo secolo successivo alla originaria stesura del romanzo si è affermato come insigne francesista e attento lettore della poesia moderna – dal classicismo ai romantici e ai novecentisti – attraverso la psicanalisi, catalogando, quindi, con divertita eleganza e ardita spregiudicatezza “rovine, reliquie, rarità, robaccia, luoghi inabitati e tesori nascosti”, gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura (1993) cioè, lasciò stagionare il suo racconto per mezzo secolo, quasi che il testo non potesse che venire frainteso, e poi ci tornò su per un altro decennio decidendosi a pubblicarlo soltanto alla fine – nonostante la primitiva decisione di volerlo postumo – a marzo, pochi mesi prima di morire quest’anno il 22 giugno. Non è difficile immaginare il perché di così lunghe incertezze e di ben undici stesure – tante ne ricorda l’autore in tre tempi –; infatti, è evidente la ricerca di uno stile disincantato, quasi di un astratto distacco dalle vicende narrate, di una pacifica indifferenza, e al tempo stesso è lucido il giudizio su un percorso condannato a spiaccicarsi senza rimedio contro la sua stessa insicurezza, la fragile inconsistenza di una scelta mai fino in fondo perseguita. Orlando, uomo peraltro incantevole nella conversazione, evoca i turbamenti sensuali di quella torbida giovinezza altalenante tra “conformismo ed emancipazione”, corrosa dalla coscienza di un “vizio”, che inevitabilmente condurrà i due amici a rovinarsi a vicenda in un rapporto sempre più ambiguamente sadico e masochista, dove non c’è piacere senza umiliazione, né dolcezza senza esaltazione. È lo stesso autore che rivendica l’assenza di ogni ideologia e al tempo stesso il valore civile del suo libro, sottolinean-do la precoce coscienza dell’ambigua doppiezza di ogni identità anche sessuale, cosicché non c’è nulla da sostenere o difendere, se non il diritto o il destino di oscillare da una parte all’altra, mai fino in fondo presenti a se stessi; l’alternativa è soltanto tragica, nel rinunciare ad esistere. E così fu.
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