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Brasile. Ecco il dopo Lula

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Sorprendenti. Si possono definire in molteplici modi le performance economiche, politiche e sociali del Brasile della cosiddetta “era Lula”. Ma senza dubbio l’aggettivo piu adeguato è quello che mette in luce la sorpresa per come un Paese complesso e con un debito sociale ancora attivo così rilevante, nell’arco dei due mandati presidenziali in fondo brevi, sia riuscito a distaccarsi nello scenario globale come un attore di primissimo piano. Alla vigilia dell’insediamento della nuova presidentessa del Brasile, Dilma Rousseff, che raccoglie una eredità impegnativa e sorretta da un consenso quasi plebiscitario, ad organigramma ministeriale ormai chiarito (dove prevale la continuità pero con un interessante “Dilma’s touch”), vale la pena ancora di interrogarsi sulle cause profonde in larga parte ancora da interpretare del brillante rafforzamento di una pur giovane democrazia (solo venticinquenne).
 
Se nel 2020 il Brasile sarà, come pare, la quinta economia del pianeta, molto si dovrà a quello che è successo nel segmento temporale degli ultimi 8 anni. Ma, al di là delle molte combinazioni che lo hanno reso possibile, qual è stato il principale carburante che ha rimesso in moto la locomotiva brasiliana? Si discuterà ancora per molto, e da diversi versanti, sulle cause efficienti della modernizzazione inclusiva promossa negli ultimi anni. In modo del tutto schematico, si può osservare che è decisiva nella configurazione di un nuovo assetto-Paese la combinazione sistemica tra la tenuta della stabilità monetaria (già avviata dal predecessore di Lula, Fernando Henrique Cardoso, a partire dal 1994) e l’avvio, nel secondo mandato presidenziale, di un progetto che coniugasse distribuzione del reddito e crescita economica non in modo concorrenziale (come storicamente avveniva, nel corso del ‘900 anche dinanzi a notevoli cicli di crescita) ma combinato. Accanto agli indicatori economici, il dato certamente più rilevante è quello che proviene dal quadro sociale, in un Paese costituzionalmente disgregato nelle sue politiche distributive. Secondo la Fundação Getúlio Vargas, centro accademico di eccellenza, per la prima volta nella sua storia, tra il 2003 e il 2008, la classe C – ossia la classe “media” caratterizzata da un reddito famigliare mensile di almeno 3 salari minimi – è divenuta il segmento della società (circa il 49%) con la porzione maggiore di reddito nazionale (il 46%), rispetto alle classi A e B più ricche (con un reddito superiore ai 5 salari minimi) che rappresentano il 10% della popolazione (col 44% del reddito) e le classi D ed E che costituiscono all’incirca il 40% della popolazione, con meno di tre salari minimi. Una “nuova classe media” si è affacciata sulla scena economica brasiliana e per la prima volta detiene la fetta più consistente del reddito nazionale. La crescita del mercato interno dunque è una delle ancore della crescita sostenibile.
 
In realtà, nel complicato scacchiere brasiliano, il governo Lula ha compiuto quattro mosse decisive: ha avviato una crescita economica stabile, ha favorito l’espansione del mercato interno, ha promosso il riposizionamento internazionale del Brasile (con la sua iscrizione in un sistema di alleanze multilaterali, ma soprattutto “sudamericane” e globalmente attente ai movimenti del sud del mondo) e ha ridefinito la priorità della spesa pubblica orientata verso un maggiore investimento nelle politiche sociali e una forte ripresa del partenariato statale con le imprese private e i poteri locali. E´ interessante notare che è in atto una “rilettura” sostanziale e approfondita del Brasile.
Uno dei fili piuÌ interessanti su questa nuova lettura del “Brasile ignoto” – come si diceva un tempo, riferendosi agli sconfinati spazi del sertão o della selva dell’interno dell’immenso Paese – è stato il dibattito del politoloo uspiano André Singer, già portavoce della presidenza sino al 2007, che pubblica in Novos estudos cebrap il saggio As raízes ideológicas do lulismo, attenta analisi delle elezioni del secondo mandato dell’ottobre 2006. Il saggio coglie in questa tornata elettorale uno snodo essenziale, un nuovo patto di classe che rifonderebbe dal basso le basi del “lulismo”. Le politiche sociali del primo mandato – come per esempio la Bolsa familia – in sè darebbero una immagine assistenzialista distorta del voto, dove le classi più povere votano in massa per Lula, mentre la classe media gli gira le spalle. Se il voto del 2002 era interclassista, quello del 2006 è scopertamente di classe. Il sottoproletariato, prossimo alla categoria del lumpen, riconfigura lo spettro ideologico del sostegno a Lula, sorretto sin dalle origini del Pt dall’appoggio della classe media urbana che ora però lo abbandona. Questo nuovo quadrante classista esprime una dimensione popolare della politica che combina elementi di innovazione e conservazione, di sinistra e di destra, con una duplice attenzione rivolta da una parte al forte impulso alla inclusione sociale, dall’altra alla stabilità monetaria come valore comune e condiviso. Si scorgerà già qui la chiave di volta del successo lulista del secondo mandato, i cui effetti si propagano sino a noi.
 
Singer capovolge la pur interessante tesi che Chico de Oliveira, l’eterodosso critico del Pt, aveva rivolto contro il governo dopo la rielezione del 2006, definendo il plebiscitario sostegno di classe al “lulismo” 2006 gramscianamente come una “egemonia al contrario” dove, in chiave paradossale, i dominatori acconsentono di essere guidati dai dominati, in un quadro affatto inedito che sfida la teoria e impone un salto interpretativo nuovo e problematico. Nell’approfondire la sua analisi, Singer, in un articolo del settembre scorso (A história e seus ardis: o lulismo posto à prova em 2010), espone ancora la possibile connessione tra “varghismo” e “lulismo”, la modernizzazione autoritaria degli anni ‘30 e quella democratica odierna. La costruzione dall’alto del “popolo” come attore che collega Lula a settori disgregati e “invisibili” della società citerebbe Getúlio Vargas nel doppio regime di autorità e protezione offerto agli strati meno protetti di popolazione. Insomma, il nuovo mercato interno, non solo come strumento economico di sviluppo, ma come leva sociale di una inclusione con ampie contropartite politiche sull’assetto della modernizzazione strutturale del Paese. Un terremoto, o per meglio dire, con le parole di Singer, la mobilitazione di “placche tettoniche” del Brasile profondo – quello, appunto, ignoto – apparentemente statico e inamovibile da sempre. La riconfigurazione ideologica e di classe in corso resta così l’architrave della sostenibilità politica e sociale della eredità Lula. Insomma, tra le tante trasformazioni, geopolitiche ed economiche del Paese, un movimento profondo trascina lo sviluppo impetuoso degli ultimi anni. La forza che lo rende diverso e sostenibile ha però un nome dal sapore antico: si chiama nuova cittadinanza.
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