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La folle corsa all’eterna giovinezza

Gioventù e vecchiaia sono due termini opposti e correlati: non c’è l’una senza l’altra, non posso definire l’una senza pensarla in opposizione all’altra. Basterebbe forse questa semplice consapevolezza, che un tempo (quando la parola non era démodé né come aggettivo né come sostantivo) si sarebbe detta dialettica, per farci essere più cauti contro le retoriche della giovinezza che hanno avuto corso, in verità senza visibili effetti pratici, nel dibattito politico-culturale italiano degli ultimi tempi. Queste retoriche sono del tutto simili, col segno cambiato, alle stucchevoli apologie della vecchiaia di cui parla Bobbio nel suo De senectute, un’opera di occasione (ma quale riflessione seria non è di occasione?) scritta ormai più di quindici anni fa ma che può essere ancora un buon filo conduttore per affrontare senza pregiudizi, come conviene al pensiero critico, un tema tanto importante a livello sociale e politico qual è quello generazionale.
 
Prima di tutto bisogna distinguere il problema dai diversi punti di vista dai quali può essere affrontato: c’è infatti, dice Bobbio, un’età cronologica o anagrafica, un’età biologica, un’età psicologica o soggettiva. Tutte e tre, possiamo aggiungere, non sono “dati di fatto” o “naturali”, ma sono relativi alla situazione storica, cioè allo sviluppo della società e al progresso umano nel suo senso più lato. Il primo elemento da considerare è che l’età media si è sensibilmente allungata, nei Paesi avanzati ma non solo, non dico negli ultimi secoli ma addirittura negli ultimi decenni: oggi un sessantenne non può essere considerato come un tempo un vecchio. Oggi si vive di più, ma si vive anche meglio: spesso a sessant’anni si è ancora nel pieno delle proprie forze, si è vecchi solo all’anagrafe. Vecchiaia e giovinezza sono poi anche degli stati d’animo: ci sono giovani che si sentono vecchi e, situazione molto più diffusa ai nostri tempi e nei nostri luoghi, vecchi che si sentono giovani. Questi umori sfociano spesso in comportamenti che, soprattutto nel secondo caso, possono assumere le forme parodistiche o ridicole dei vecchi che si vestono e si comportano come giovani, che vivono una vita “fuori tempo massimo”. E qui, in questo preciso punto, si mostra un primo risvolto sociale del nostro discorso: la tendenza dei vecchi a vivere da giovani, facilitata oggi da condizioni di salute migliori di quelle di un tempo, è assecondata e vezzeggiata dall’industria dei consumi (penso ai lifting e alle protesi dei più svariati tipi e alla vasta e varia fenomenologia dell’ideologia salutistica applicata a questa stagione della vita). Poiché questa industria spesso dà, ma molto più spesso promette, ciò che contrasta con il sostrato “naturale” o biologico che pure ci accompagna, le sue promesse non realizzate finiscono per creare insicurezze, frustrazioni e disorientamenti esistenziali. Non c’è che dire: oggi essere giovani è un valore e essere vecchi un tabù da esorcizzare e che è di fatto più o meno esorcizzato. “Questo non è un Paese per giovani” si dice dell’Italia di oggi più o meno a ragione. Ma non lo è, per i giovani di anagrafe, anche perché i vecchi si sentono giovani. È il giovanilismo ad uccidere la vecchiaia (anagrafica) e con essa, per il suddetto rapporto dialettico, la stessa gioventù (sempre anagrafica).
 
Per capire qualcuna delle ragioni del trionfo della retorica e dell’ideologia giovanilistica è opportuno, io credo, spostare la barra del discorso, almeno per un momento, dall’empiria alle idee, dai fatti al loro senso teoretico o ideale: facendo riferimento alle immagini e ai concetti che da sempre accompagnano le due età della vita, sarà forse possibile capire qualcosa di più anche della nostra società. È un discorso che esigerebbe altri spazi, ma che qui si può approssimare considerando che la gioventù rappresenta da sempre ai nostri occhi la novità, il cambiamento, la curiosità, l’irruenza e la forza dell’azione, persino la rivoluzione; laddove la vecchiaia corrisponde agli elementi dell’esperienza, della maturità, del buon senso o saggezza, della continuità, della riflessione. Entrambi i poli formano la dialettica storica: le società devono sempre rinnovarsi, ma esigono ad un certo punto anche di consolidarsi o stabilizzasi. Non c’è dubbio tuttavia che con la modernità il primo elemento abbia assunto un valore intrinseco, quasi ontologico: voglio dire che il moderno non semplicemente privilegia il nuovo, l’ora, il presente-futuro, ma si definisce in base a questo suo modo di essere o a questa priorità (l’intrinseca connessione è già nella radice etimologica di modernus che è in modus, ora). Non è un caso che la rivoluzione sia un mito politico di questa età, così come non è un caso che tipicamente moderna sia l’idea del progresso (Koselleck, in un libro bellissimo, parlava di “accelerazione del progresso”). Ora, si potrebbe obiettare che rivoluzione e progresso sono termini, da un po’, fuori moda e che ormai viviamo in un’età post-moderna. Ma sarebbe affermazione superficiale. Mai come in questo caso credo che sia più giusto parlare, con Habermas, di “seconda modernità”: l’attuale e ultima è un’epoca in cui il moderno si radicalizza e estremizza, porta all’estrema conseguenza le sue premesse. Non si parla più di rivoluzione ma semplicemente perché il sistema trionfante del capitalismo globale vive continuamente rivoluzionandosi; così come non si parla più di progresso unicamente perché le nostre menti sono direi “programmate” a oltrepassare nichilisticamente (cioè senza un senso evidente) sempre nuove frontiere. Innovazione e creatività sono gli idola tribus del nostro tempo, persino nei curricula per trovare lavoro: la povertà dialettica o di pensiero fa sì che non si consideri che le innovazioni non sono fugaci solo se si inseriscono in un tessuto storico e che la creatività non nasce come ispirazione ma è anche frutto di lavoro e esperienza. Come ha scritto Maurizio Ferraris, tutto è artificialmente costruito oggi come evento: i fatti diventano storici, irripetibili, unici come per decreto.
 
Ora, il nuovo per il nuovo può essere un incubo o una prigione non meno dura di quella in cui ha vissuto chi ha sopportato il peso delle tradizioni millenarie che reggevano le società statiche o chiuse. La vita si vuole oggi sempre agli albori; viviamo rincorrendo un’eterna giovinezza; tutto è moda, inautenticità, frivolezza. Il rischio è che alla dialettica venga a mancare il momento della contraddizione, il “negativo” che paradossalmente funge da unico antidoto al trionfo del nulla di senso che già ci circonda. Ben vengano, in questo contesto, ritornando al concreto, le azioni di resistenza: è di esperienza, competenza, saggezza, “pesantezza” che in questo momento abbiamo bisogno. Abbiamo bisogno di un Fantozzi che gridi che la Corazzata Potemkin è, come effettivamente è, un film importante, che va preso sul serio. La reazione è oggi la vera rivoluzione per riequilibrare la barra che tiene in vita gli uomini e a maggior ragione le società. Abbiamo bisogno di più, non di meno vecchi, in senso ideale prima ancora che in senso empirico.
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