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Zone d’ombra

Del già ansimante processo di “rientro” del nostro Paese nella tecnologia nucleare – avviato nell’estate del 2008 con un disegno di legge approvato un anno dopo con la “legge per lo sviluppo” n. 99 – sono ravvisabili alcuni vizi d’origine. Due in particolare. Il primo è l’enfasi posta dai suoi sostenitori sulle virtù del nucleare – più sicurezza, più ambiente, più convenienza – celando le molte e oggettive difficoltà che è necessario superare affinché non si traduca in un ulteriore enorme dispendio di risorse. Il passato non sembra davvero aver insegnato niente. E proprio guardando ai numerosi errori che portarono all’infausta uscita di un quarto di secolo fa, ritengo sia questo il peggior modo per guadagnare quel consenso politico e sociale che è condizione imprescindibile per porre le basi di un solido e credibile processo di rientro. Il rischio è, altrimenti, il ripetersi della stucchevole commedia italiana vissuta col ponte sullo Stretto di Messina (di cui, per altro, si son perse le tracce). Sono dell’avviso, invece, che la perduta credibilità del “nucleare all’italiana” – a cui concorsero non pochi dei suoi attuali neofiti – la si possa recuperare ponendo in evidenza, da un lato, gli “ostacoli” che si frappongono alla sua ricostruzione e, dall’altro, le “soluzioni” individuate per superarli. Far le cose facili – sostenendo che siamo in grado di aprire i cantieri entro la naturale scadenza elettorale del maggio 2013; che siamo perfettamente in grado di costruire in un decennio 13mila MWe nucleari (pari a 8-12 centrali); che così facendo si abbatteranno senza dubbio alcuno i costi e i prezzi dell’elettricità del 20-30%; che gli investitori sono perfettamente in grado di “fare da soli”; che lo si possa fare senza che lo Stato vi impegni un solo euro; che l’industria italiana ne trarrà straordinaria occasione di sviluppo – ebbene, è fare propaganda. E con la propaganda non si va proprio da nessuna parte. Si prenda solo una di queste affermazioni: quella cruciale dei tempi del rientro. Se si mettono in fila gli oltre 50 passaggi amministrativi necessari ad aprire il primo cantiere, previsti dalle leggi che hanno ridisegnato l’assetto normativo e istituzionale del nucleare (la n.99 del 2009, il decreto legislativo n.31 del 15 febbraio 2010, lo statuto per l’Agenzia per la sicurezza nucleare) si prospetta una “via crucis” difficilissima da districare, col coinvolgimento di oltre un centinaio di decisori (governo, ministeri, regioni, conferenza Stato-regioni, Agenzia sicurezza), che richiederà, temo, molti anni prima che si possa aprire il primo cantiere (non certo i pochi che si continuano a sbandierare) e un tempo del tutto indeterminato e indeterminabile prima che si possa vedere una lampadina alimentata col nucleare nazionale.
 
Programmare o vantare un qualsiasi traguardo temporale è esercizio, quindi, vacuo ancor prima che impossibile. Il secondo vizio d’origine è il fare credere che la scelta nucleare possa farsi ricadere sotto il profilo economico unicamente nella sfera delle decisioni private, senza alcun tipo di protezione, o soccorso che dir si voglia, dello Stato o dei consumatori. Sostenendo, anzi, che essa sia perfettamente compatibile col sistema di mercato concorrenziale che ha soppiantato il precedente monopolio pubblico. Questo è uno dei punti essenziali della “strategia nucleare”, che per legge il governo avrebbe dovuto rendere nota già da molti mesi, “quale parte integrante della strategia energetica nazionale”. Stante l’indisponibilità dell’una e dell’altra – essenziali a capire di cosa effettivamente e non teoricamente si stia parlando – non si può procedere che per ipotesi e supposizioni. Ad essere più chiari sul tema economico: se vi sono, come continuamente viene ribadito, investitori privati (e loro finanziatori) che credono nella convenienza e competitività del nucleare e sono disposti a rischiare del loro, avviino i loro progetti, nel pieno rispetto dei vincoli di sicurezza fissati dalle autorità competenti. Augurando loro di far bene i calcoli, onde evitare che i numerosi rischi connessi a tal tipo di investimenti abbia a costituire per loro un corporate killer, come ha ammonito il gruppo bancario Citigroup. Se le cose non stanno così, se cioè la scelta nucleare poco si addice all’attuale contesto privatistico e concorrenziale, si faccia allora chiarezza sulle forme di “protezione” dei loro investimenti che le imprese private richiedono allo Stato o ai consumatori, in assenza delle quali i loro progetti non sono finanziabili. Protezione, in primo luogo, sui ritardi nei processi autorizzativi o realizzativi (i tempi di costruzione delle centrali in esercizio nel mondo occidentali sono risultati mediamente doppi di quelli preventivati, e la stessa centrale in costruzione in Finlandia è in ritardo di alcuni anni).
 
Il decreto legislativo n.31 riconosce alle imprese una piena “copertura finanziaria ed assicurativa contro il rischio di ritardi nei tempi di costruzione e messa in esercizio degli impianti per motivi indipendenti dal titolare dell’autorizzazione unica”. In una prima bozza del decreto si prevedeva che lo Stato avrebbe garantito le imprese solo in caso di “abbandono del programma per scelta politica” con indennizzi pari ai “costi sostenuti” (come avvenuto dopo il referendum), mentre nel testo finale la garanzia pubblica si è enormemente dilatata, estendendosi a tutti i potenziali danni, in misura ex-ante incalcolabile e non riscontrabile, che io sappia, in altre legislazioni. Il rischio è, comunque, che tale protezione possa gravare molto sui conti pubblici (ma il ministro Tremonti lo sa?): per i non escludibili comportamenti opportunistici delle imprese; per la vaghezza della norma; per l’incertezza nell’individuazione delle cause di ritardi nella costruzione di una qualsiasi opera. Seconda protezione è la garanzia sulle quantità, riconosciuta per legge con la “priorità di dispacciamento” del nucleare, così come accade con le rinnovabili. Terza e più critica protezione è quella “sui prezzi di cessione” dell’elettricità prodotta via nucleare, per metterli al riparo dalle oscillazioni dei prezzi delle fonti concorrenti, dall’imprevedibilità della domanda, in una parola: dalla concorrenza. Una richiesta adombrata dai produttori col ricorso a “meccanismi di salvaguardia dell’investimento nel caso di oscillazioni delle materie prime al di fuori di una banda predefinita”; il riconoscimento di “tariffe minime”; la sottoscrizione di contratti a lungo termine da parte pubblica tali da assicurare copertura dei costi (del tutto ignoti ex-ante), ivi inclusa una piena remunerazione degli investimenti. Morale: quanto costerà e ci costerà il nucleare non è dato sapere, nell’impossibilità quindi di poter sostenere che col suo rientro si avrà una secca riduzione dei prezzi dell’elettricità per le famiglie e imprese. Su queste e altre domande è necessario un confronto trasparente – quel che sinora non è avvenuto – e risposte chiare per poter valutare cosa effettivamente significhi per il nostro Paese il “rientro nel nucleare” e affinché esso non abbia a essere nell’interesse di pochi, ma della collettività intera.
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