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Tutti i fari puntati su Ankara

La Turchia ha elaborato, fino ad oggi, una compiuta analisi geostrategica degli effetti della fine della Guerra fredda sulla sua geopolitica globale. Ankara ha cessato di subire le pressioni della Russia, elemento primario della sua adesione nel 1952 alla Nato, rimodellando una sua linea di espansione verso l’Asia centrale e il Caucaso, avendo per tracciato la direzione della diaspora turca dall’Azerbaigian fino al Turkmenistan, per raggiungere, al fine di generare stabilità, le aree islamiche dello Xinjiang cinese. La nuova area di libero scambio tra Giordania, Libano, Siria, Turchia, che verrà aperta nel 2011, sarà un elemento-chiave nella nuova dottrina di politica estera che l’Akp di Recep Tayyp Erdogan, con l’aiuto determinante del ministro degli Esteri Davutoglu, ha finora elaborato, quella degli “zero problemi” con i vicini. Il “taglio” della teoria di Davutoglu è sostanzialmente culturalista: per il ministro di Ankara, la civiltà islamica è un tutto, ed è inerentemente superiore alle koinè non-islamiche nella misura, è bene notarlo, in cui la ummah si presenta unita al cospetto delle altre civilizzazioni globali. In questo senso, i vari sistemi di integrazione economica, come quello mediorientale, o la “Piattaforma per la stabilità e la cooperazione nel Caucaso”, o ancora la diplomazia bilaterale di Erdogan nella fase della tensione tra Mosca e Tbilisi con la guerra in Abkhazia e Ossetia del Sud, sono tutte operazioni regionali della Turchia per raggiungere la “profondità strategica” di cui il nuovo sistema anatolico-caucasico ha necessità per dialogare con l’Ue e per divenire, in relazione alla crescita dell’Iran e alla nuova configurazione del Medio Oriente mediterraneo, una media potenza e non una semplice appendice orientale dell’Alleanza atlantica. La “profondità” riguarda soprattutto l’asse del Caucaso, dove Ankara vuole essere determinante come power broker nell’area, e quindi divenire il centro di gravità per la sicurezza degli approvvigionamenti energetici per l’Ue e per l’intero bacino del Mediterraneo. È in questo senso che va letta la politica di stabilizzazione svolta da Ankara nell’Iraq settentrionale, per evitare il predominio curdo nelle zone di estrazione petrolifere irachene.
 
La questione dei rapporti bilaterali tra Ankara e Gerusalemme diviene, a questo punto, essenziale anche sul piano della “profondità strategica” globale turca. La relazione tra Gerusalemme e Ankara è strategicamente sostanziale per entrambi i contraenti. Israele vede, fin dagli anni ‘90, la Turchia come un “amico vicino” che permette l’uscita geopolitica dai contraints dei “nemici vicini”. Se, e quando, la Turchia verificherà il rinnovato interesse degli Usa nel Caucaso e, soprattutto, nell’Iraq del nord, in contemporanea a una limitazione delle istanze del Kurdistan, allora la tensione tra Washington ed Ankara, generatasi con il disinteresse degli Usa per l’area di Sulemainyiah, potrà diminuire, e produrre effetti anche nelle relazioni con Israele. Se, poi, Ankara volesse ripetere le tensioni che hanno caratterizzato i recentissimi rapporti con Israele, quali la reazione di Erdogan al forum di Davos o l’invio della Mavi Marmara a Gaza allora si ritroverebbe con un assetto contrastante della politica estera Usa nel Caucaso e, soprattutto, con una scarsa credibilità della strategia di Davutoglu di una Turchia “al centro di tutto”, e al laccio degli Stati islamici radicali che, peraltro, sono interessati ad interdire l’espansione di Ankara nell’Asia Centrale e nel Golfo Persico.
 
Quindi, il punto è questo: cogliere il momento in cui Ankara ha interesse a “staccare la spina” con le insorgenze palestinesi, per evitare di essere letta come un altro degli Stati dell’area che gioca al gioco della penetrazione del quadrante mediorientale, mentre la Turchia vuole giocare, e ne ha facoltà, il grande gioco della correlazione egemonica tra Europa e Asia centrale, pacificando il Medio Oriente, che vive ancora i fantasmi della Guerra fredda travestiti da “jihad della parola e della spada”. Il punto di rottura potrebbe essere quello di un accordo precedente alla compliance da parte di Ankara dei 35 chapters dell’acquis communitaire, che sono già arrivati all’apertura delle issues sull’Ambiente (8 dicembre 2009) e della sicurezza dei cibi e fitosanitaria (30 giugno 2010) nel quale si prospettasse una collaborazione tra Turchia ed Eu sulla sicurezza dei mari regionali e sull’antiterrorismo simile alla Shangai cooperation organization ad est e, naturalmente, aperta al contributo di Gerusalemme, oltre a prevedere, prima dell’acquis, un trattato speciale tra area Meda e la nuova area di libero scambio tra Turchia, Libano, Giordania e Siria in fase di avvio. Sulla relazione tra Usa e Turchia, occorre far capire a Ankara (e a Washington) che il mantenimento dell’Alleanza atlantica è vitale, e lo sarà sempre, per il quadrante turco, e quindi le nuove minacce del terrorismo e dei non state actors, che gli Usa ritengono primarie nel nuovo concetto strategico della Nato, sono certamente fondatissime ma non escludono una riformulazione delle alleanze tra gli state actors. Se questa ipotesi di nuovo legame geopolitico tra Stati verrà integrata nel sistema atlantico, che potrebbe garantire, in futuro, l’indipendenza e l’autonomia geopolitica di tutto l’asse che va dalla faglia balcanica fino al canale di Suez e ai bordi dell’Oceano indiano, Ankara potrebbe accettare lo scambio tra una sua più decisa lotta contro le insorgenze islamiste di contro ad un suo ruolo primario nell’espansione ad est del sistema di alleanze della Nato e della Partnership for Peace.
 
La Turchia, nelle lentezze dell’accesso alla Ue, legge il fallimento della linea di Kemal Ataturk, che vedeva il suo Paese come una “nazione europea dentro il mondo islamico”. Il risorto progetto di “Imperium ottomano” può divenire una riproposizione di questo modello kemalista, visto che l’Ue non riesce a elaborare una strategia di penetrazione del Grande Medio Oriente e del Caucaso, e gli Usa sono lontani ormai dal Kurdistan – oppure trasformarsi in una geopolitica dell’interdizione sistematica degli interessi europei nel quadrante di influenza turco. La questione energetica, a questo punto, diviene essenziale. Per ora, l’asse dei trasporti gazieri e petroliferi è il Btc (Baku-Tbilisi-Ceyhan), tutto in area “turchica” (Azerbaigian-Turchia) terminato nel 2006, oltre al progettato oleodotto Samsun-Ceyhan. La Turchia è quindi in condizione di determinare le scelte degli attori mediorientali e centro-asiatici di petrolio e di gas in funzione dei cicli economici e degli interessi strategici europei e del Western Pillar della Nato, e non ha quindi alcun interesse a fomentare guerre regionali che renderebbero insicura la fornitura e l’affidabilità geopolitica dei Paesi fornitori.
La questione quindi riguarda anche il Nabucco, la pipeline che trasporterà, a partire dal 2012, con chiusura dei lavori nel 2015, fino alle coste turche, e oltre, il gas e il petrolio dal Caucaso e dal Medio Oriente verso l’Austria attraverso la Bulgaria, la Romania, l’Ungheria. Se Ankara riuscirà a divenire il punto di snodo sia di Btc che del Nabucco, allora il suo leverage strategico nei confronti della Ue sarà tale da permettere un ruolo efficace, da “Paese europeo nel mondo islamico”, di intermediazione e di sedazione delle tensioni islamiste e jihadiste dal Medio Oriente fino al Caucaso, e quindi una nuova presenza di Ankara nel quadrante Nato e in quello della geoeconomia dell’Europa Unita.
 
Un altro fornitore probabile del Nabucco è il Turkmenistan, che però deve trasferire le eventuali forniture via mare e intende, da sempre, diversificare fortemente i propri mercati finali. Se il Turkmenistan aprirà, come sta già facendo, il proprio mercato alla Cina, il sistema delle forniture di Nabucco, fortemente voluto dagli Usa per evitare la pressione della Russia nell’area caucasica, ci troveremmo ad una geopolitica del gas e del petrolio caucasico determinata dalle strategie bilaterali di Mosca, che potrebbe offrire di più ai Paesi fornitori, o di Pechino, che ha fame di idrocarburi e avrebbe tutto l’interesse a determinare, con i suoi cicli di acquisto del gas e del petrolio turkmeno e a zero, la liquidità globale e il tasso di inflazione reale dei suoi clienti europei e Usa nel settore non oil.
La questione, però, della fornitura di Nabucco riguarda anche la stessa Turchia, che deve sia sostenere, con una politica aggressiva sui diritti di passaggio delle pipelines, il suo forte sviluppo economico e, in parallelo, le forniture da end user di gas naturale e petrolio, che sono inevitabilmente in controtendenza rispetto alle quantità di idrocarburi destinati al passaggio verso l’Ue, e presuppone inoltre un costo per la sicurezza delle linee e le riparazioni che, come è facile immaginare, non può essere correlato al ciclo dei prezzi per l’utilizzatore finale di petrolio e gas. Se quindi la Turchia vorrà “fare da sola” per l’acquisizione di idrocarburi, l’interesse primario di Ankara sarà verso una strategia competitiva rispetto a quella dei finanziatori Usa e Ue di Nabucco, e questo porterà ad una forte presenza di truppe turche, come è peraltro già avvenuto, nel nord dell’Iraq e ai confini tra l’Anatolia, la Federazione Russa e l’Iran, in piena opposizione agli interessi Usa e Nato nell’area.
 
Un’opzione per il sostentamento di Nabucco riguarda l’Iran, dato che il Turkmenistan è interessato maggiormente agli scambi energetici bilaterali con Mosca che, con ogni probabilità, aggiungeranno gas turkmeno nelle reti di trasporto del gas russo verso l’Ue. L’Iran possiede il 16% di tutte le riserve provate di gas naturale nel mondo, ma ha anch’esso un alto consumo interno di gas naturale e si trova, come la Turchia, in una sorta di “dilemma del prigioniero”: se consuma il suo gas, aumenta il tasso di sviluppo dell’economia ma diminuiscono le esportazioni, decurtando le finanze pubbliche. E, comunque, South Pars non può essere messo in produzione senza capitali esteri: se Teheran riesce a costringere, anche tramite la sua postura aggressiva sul nucleare, i capitali dell’Opec sunnita a implementare South Pars, allora aumenta la capacità di pressione dell’Iran per le eventuali forniture verso Nabucco attraverso la Turchia, ma se questo non accadesse è probabile che Teheran voglia giocare la carta di un pool finanziario regionale tra Turchia, Federazione Russa, Cina e, probabilmente, India. Sarebbe la fine della geopolitica europea e Usa degli idrocarburi nell’area.
 
Sul piano geopolitico, inoltre, la nuova configurazione degli interessi turchi, se si incentra ancora sul Mediterraneo e sulla relazione speciale con l’Ue si proietta soprattutto nel Caucaso, dove la questione della Georgia è ancora determinante, per Ankara, che non ha nessun interesse a favorire gli Usa contro la Russia, ma non ha nessun motivo per allontanare Washington da quel quadrante strategico. Anzi, se c’è una doléance di Ankara nei confronti degli Usa, è proprio quella di essersi troppo allontanati da quell’area per riconfigurare i propri centri di gravità sulla Hearthland afghano-pakistana e sul sistema iracheno, nel quale peraltro il gioco tra Ankara e Washington non può essere cooperativo, data la correlazione strategica tra il movimento curdo e le forze Usa nell’area, in funzione antiraniana e antijihadista. Se poi la Russia mantiene la sua forte presenza nel mercato petrolifero e gaziero turco, con il 65% del gas che va da Mosca ad Ankara, e il 40% del petrolio fornito, allora il livello al quale i rapporti tra Ankara e Washington possono divenire ancora fortemente positivi si alza, dato che gli Usa vogliono una Nato anti-global jihad e la Turchia desidera invece una geopolitica atlantica più legata ad una egemonia multipolare in tutta l’Asia centrale, per “accerchiare” l’Iran e per controbilanciare l’asse tra Mosca, Teheran e il Paese-transito potenzialmente concorrente della Turchia, la Siria.
Ma, allora, l’opzione regina per gli Usa e gli altri Paesi occidentali è quella di sostenere sia la politica di Davutoglu sugli “zero problemi con i vicini”, ma di sostenere anche azioni che facciano capire alla dirigenza di Ankara che la soluzione di “profondità strategica” turca è possibile solo se la teoria della “Turchia al Centro” crea occasioni di gioco cooperativo anche ad ovest e a sud di Istanbul. Altrimenti, Ankara si vedrebbe costretta a sovrapporsi alle potenze islamiche dell’Asia centrale e del Golfo Persico, che non hanno nessuno degli interessi a lungo termine in comune con la Turchia: né sul passaggio degli idrocarburi, né sulla sicurezza regionale, né tantomeno sulla posizione egemonica turca nello spazio panturanico che va dall’Anatolia allo Xinjiang, che verrebbe interdetto ad Ankara e chiuderebbe, inoltre, ogni tipo di relazione positiva con la Cina.
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