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Europa senza bussola sul caso Tunisia

All’inizio di quest’anno l’Unione europea ha avuto grande difficoltà a rispondere agli sviluppi in corso alle sue frontiere orientali e meridionali, nonostante queste siano state indicate nel Trattato di Lisbona come area prioritaria per la sua politica estera. L’Unione ama presentarsi come potenza che mira alla promozione di processi di trasformazione di lungo periodo nei Paesi che la circondano. Eppure quando forze di cambiamento emergono, per esempio in Bielorussia e Tunisia, si ritrova senza bussola. Le risposte immediate sono state poco più che appelli al contenimento della repressione delle proteste, e l’Unione europea è stata virtualmente senza voce fino a quando Ben Ali ha abbandonato Tunisi. Ancora devono materializzarsi strategie di più lungo termine e possibili esiti post-transizione. E nel suo passato, l’Europa non ha mirabolanti esperienze di sostegno alle transizioni democratiche. La Bielorussia e la Tunisia non sono gli unici Paesi dove governi autoritari sono stati sfidati dai movimenti popolari; il possibile effetto domino nel mondo arabo è stato da molti sottolineato, con particolare riferimento alle proteste in Egitto e Yemen. Per quanto tutte queste situazioni differiscano fra di loro – e il caso tunisino è per molti versi unico – ci sono due elementi in comune: il deficit di democrazia e di diritti politici è chiaramente tra le cause sistemiche che in ultima analisi minano alle basi i regimi; e l’Unione europea non è in grado di andare oltre sterili dichiarazioni e di prendere la guida dei processi di trasformazione democratica.
 
Manca la leva su cui impostare risposte immediate e strategie di lungo termine. A dispetto di tutta la retorica sul ruolo “trasformativo” dell’Unione europea, in pratica la sua politica di vicinato è stata concepita per mantenere lo status quo in Europa orientale e nel Mediterraneo del sud, nella convinzione che status quo sia sinonimo di stabilità. Le dinamiche politiche in entrambe le regioni hanno ampiamente dimostrato che non è così. Eppure perfino in Europa orientale, dove la Ue può esercitare maggiore influenza ed è stata invocata da movimenti democratici, l’Unione ha avuto grande difficoltà a trovare strategie appropriate per assicurare che la svolta portata dalle rivoluzioni “colorate” potesse tradursi in democrazie consolidate.
Perché è andata così? Ci sono molte priorità costrette ad una non facile convivenza con quelle indicate dalla retorica democratica. Ad est, le relazioni con la Russia – fondate su rapporti storici, forniture energetiche e la rilevanza di Mosca come attore regionale e globale – rimangono una delle questioni più controverse, che oscura ogni tentativo europeo di sviluppare politiche pro-stabilizzazione democratica nella regione mentre si assiste ad un riavvicinamento con la Russia. Insieme alla riluttanza ad offrire una qualsiasi prospettiva di adesione, questa questione ha indebolito la capacità attrattiva della Ue in Europa orientale. A sud, il timore che le opposizioni islamiste salgano al governo attraverso elezioni democratiche, la cooperazione nel controllo dei flussi migratori, il contenimento del conflitto mediorientale, e le relazioni con i Paesi esportatori di energia hanno bloccato praticamente sul nascere ogni tentativo di promuovere i diritti umani fondamentali e un certo grado di pluralismo politico. Questi interessi sono sostanziati dalla differente visione che i singoli Stati membri hanno su ogni questione, ciò che rende le politiche regionali un mosaico di interessi e valori privo di ogni efficacia. Oltre a queste priorità concorrenti, che è piuttosto facile criticare, c’è da prendere sul serio la questione politica chiave del discrimine tra trasformazione e stabilità. Come trovare il giusto equilibrio tra la condanna e l’isolamento dei regimi autoritari, e il loro coinvolgimento in un dialogo che si dice sia più utile per promuovere le riforme?
 
L’Unione europea ha lavorato ad accordi con Paesi il cui profilo nel campo di diritti umani è pessimo, come la Siria, la Libia e ora i Paesi centroasiatici. Le relazioni con la Tunisia sono state particolarmente vergognose: non soltanto la repressione di quel regime è stata una delle meno contestate dalla Ue, anche in confronto con situazioni analoghe in Nord Africa e Medio Oriente, ma le sue riforme economiche sono state lodate al punto che il Paese era candidato a raggiungere uno status di relazioni avanzate con Bruxelles. Su quel versante, perfino Israele è stato di fatto bloccato a causa della questione degli insediamenti.
Bruxelles rassicura che i problemi di libertà politica sono trattati a livello diplomatico, non alla luce del sole: ma questo è del tutto insufficiente.
 
C’è molto da fare per migliorare il supporto europeo al cambiamento democratico alle sue frontiere. Le nuove unità a tutela dei diritti umani nel Servizio relazioni esterne e le delegazioni Ue rafforzate in tutto il mondo possono essere di grande aiuto, garantendo che diritti umani e principi politici siano meglio integrati nell’analisi della situazione politica dei Paesi terzi, e nella formulazione delle politiche per la transizione. Anche i progetti di aiuto possono essere meglio disegnati per affrontare queste questioni. E le alte politiche, inclusa la diplomazia degli Stati membri, devono andare di pari passo con gli altri aspetti delle relazioni esterne Ue.
Ma gli Stati membri devono affrontare in modo più aperto, in un confronto serrato, la questione generale se la Ue sia realmente intenzionata ad essere potenza trasformativa, e quindi calibrare le strategie corrispondenti. La potenziale ascesa dei partiti islamisti attraverso libere elezioni, come rapportarsi alle sfide civili ai regimi autoritari, se sostenere o meno i movimenti di opposizione politica, come rapportarsi con la società civile, e in che misura la Ue debba promuovere all’estero quelli che chiama i suoi “valori” – queste sono solo alcune delle problematiche a cui l’Europa non sa dare una risposta. Forse è impossibile delineare una mappa operativa, ma certo la gestione “caso per caso” non aiuta a sollevare l’immagine della Ue presso i propri cittadini e presso coloro che lottano per i propri diritti fuori dai confini europei. Né è pagante nel lungo periodo: ci sono sufficienti prove che le politiche di contenimento e pro-status quo non vogliano dire stabilità.
 
Senior policy analyst presso l´European policy centre
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