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Un piano Marshall per la transizione democratica

Con un effetto domino, la rivolta scoppiata lo scorso dicembre in Tunisia si sta estendendo ad altri Paesi del mondo arabo. L’Europa, il G8 e il G20 dovrebbero accompagnare questa transizione democratica in corso, assicurando l’aiuto economico e il sostegno logistico necessari al suo sviluppo
Gli avvenimenti sopraggiunti in alcuni Paesi arabi hanno preso alla sprovvista gli analisti politici. Queste sollevazioni popolari non erano state annunciate da segnali di presagio né tanto meno pianificate.
In Tunisia, la rivoluzione è partita il 17 dicembre 2010 da un gesto di disperazione: un’immolazione con il fuoco che ricorda i sacrifici dei monaci “bonzi” che si opponevano alla guerra in Vietnam o il suicidio di Jan Palach per protesta contro l’invasione sovietica e la strozzatura della “Primavera di Praga”.
La rivolta si è manifestata in una regione del centro-ovest del Paese da tempo marginalizzata e senza peso politico.
L’aspetto atipico e sorprendente dell’esplosione di collera e di rivendicazione riguarda il fatto che non è stata una banale sollevazione rurale né, come l’hanno erroneamente definita, “una rivolta del pane”. Degli slogan proclamavano che «questa non è la ribellione degli affamati (di pane) ma la rivoluzione degli assetati (di libertà e dignità)».
 
Di più, questa sollevazione non è stata opera dell’esercito, come ai tempi dei colpi di Stato militari o dei partiti d’opposizione, neanche dei soli sindacati anche se la loro adesione, così come quella dell’ordine degli avvocati e quella delle organizzazioni dei diritti dell’uomo, ha apportato un incontestabile rinforzo e ha donato alla rivolta la massa critica che l’ha trasformata in rivoluzione.
La rivolta tunisina è stata il risultato all’inizio dell’esasperazione dei giovani, molti dei quali condannati alla disoccupazione o a degli espedienti, poco in rapporto alla loro formazione.
Questi “bambini di Internet”, questa generazione che domina i nuovi mezzi di comunicazione si è trovata non allineata con gli arcaismi, l’immobilità e l’ingiustizia di un mondo politico deviato.
I manifestanti che sono confluiti su Tunisi invocavano libertà, lavoro e dignità.
Non è stata scandita nessuna parola d’ordine di natura islamica. Questo evento pareva demolire la dottrina dell’“imperativo della stabilità” che è servita per lungo tempo da pretesto al sostegno dato ai regimi che sembravano garantirla, a prezzo però della dittatura e dell’aggressione ai diritti elementari della persona umana.
Si poteva legittimamente domandarsi se fosse fondato il teorema per cui “non si poteva combattere la peste dell’estremismo e del terrorismo che con il colera della dittatura”!
 
Guardando i risultati ottenuti dalla rivoluzione tunisina, sembra necessario procedere rapidamente a una revisione di queste antiche certezze.
Certo, rimane da cambiare pacificamente il regime senza rischiare che la rivoluzione venga snaturata. Qui si gioca una grande parte della difficoltà della transizione democratica che, con un effetto di contaminazione, si sta estendendo ad altri Paesi del mondo arabo.
Alcuni continuano a temere, in questa prospettiva, il pericolo di un ritorno degli islamici, invocando come precedenti le elezioni democratiche che hanno permesso al Fis in Algeria e ad Hamas in Palestina di vincere la competizione.
La questione è fondata e non si tratta certo di nascondersi dietro un dito.
Ma in Tunisia il rischio sembra limitato. I tunisini, per la maggioranza, tengono molto alle loro conquiste sociali (tra cui lo statuto delle donne) ed economiche (tra cui l’esistenza di una classe media estesa). Con tutta probabilità si opporrebbero a tutti i tentativi di ritornare su queste storiche conquiste.
 
Altrove il rischio può sembrare più reale. Ma bisogna sottolineare che, quando le società arabe accederanno a pratiche democratiche consolidate, il loro terreno politico cambierà con l’accettazione di espressioni plurali grazie a nuove regole di gioco che stabilirà il sistema democratico.
Infatti, allo stato attuale delle cose, la scelta per un’espressione politica islamica è da fare tra due modelli dominanti e differenti: il modello egemonico iraniano dello Stato teocratico e quello turco moderato di una componente che si inserisce in un insieme sistemico, accettando la pluralità e l’alternanza e la possibilità di essere, di volta in volta, maggioritaria o minoritaria all’interno di un Parlamento liberamente eletto.
Un altro rischio che potrebbe pesare sui processi di democratizzazione in corso, sta nel comportamento delle Forze armate che sono diventate un attore inevitabile del cambiamento perché sono le strutture più organizzate della società.
Bisogna evidenziare le differenze che si sono manifestate, all’interno di queste strutture, sia in Tunisia che in Egitto, tra la polizia e l’esercito. Quest’ultimo si è mostrato, in maniera più netta nel caso tunisino, abbastanza favorevole al processo di transizione.
 
A questi due rischi, si aggiunge una variabile che concerne più la regione orientale e che tiene conto delle ripercussioni della transizione sugli interessi delle potenze regionali e internazionali in questa zona, sul fragile equilibrio della situazione e sul rilancio dei processi di pace.
Al di là di questi due potenziali rischi e di questa variabile geo-strategica che pesano sui risultati delle rivolte in corso, o future, è evidente che la ricerca dei processi di transizione democratica è, a corto e medio termine, nell’interesse di tutti: di quegli attori assetati di libertà, dignità e sviluppo economico e sociale, e nell’interesse dei Paesi sulla riva europea del Mediterraneo che avranno capito come dipendano dal buon governo e dalla riuscita economica dei loro vicini della riva sud che la stabilità abbia delle chance di mantenersi lungo le loro frontiere.
Ecco perché bisogna sperare che l’Europa, il G8 e il G20 riflettano sulla possibilità di elaborare una sorta di nuovo Piano Marshall destinato ad accompagnare il processo di transizione democratica attualmente in corso nei Paesi arabi, assicurando l’aiuto economico e il sostegno logistico necessari al suo sviluppo nel senso più conforme alle aspirazioni legittime dei popoli, all’interesse comune ben compreso dagli attori regionali e al dovere di solidarietà della comunità internazionale.
 
Traduzione di Fabrizia Argano
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