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Studiare rende più dei Bot?

“Disturbi mentali prevenire conviene (anche al Pil)”. È il titolo di un giornale di qualche settimana fa. Nelle cronache quotidiane sulla rivolta egiziana, i media hanno dato conto dei miliardi persi per il blocco del turismo. Ma cosa c’entrano i quattrini con la cura delle malattie e la libertà? Qualche tempo fa, in questa rubrica abbiamo parlato della ricerca della Banca d’Italia che aveva appurato che studiare rende più dei Bot.
Ma l’istruzione può essere valutata alla stregua di un investimento economico? Salute, libertà politiche e istruzione sono immanenti alla convivenza umana, sono un diritto della persona e un valore collettivo. Stanno al di fuori dell’economia, eppure nel nostro tempo non si esita a giudicarle secondo i parametri propri dell’economia. Sembra che non ci si renda conto che non si tratta di una decisione indifferente. Accettando che salute, libertà e istruzione possono essere valutate secondo un criterio di convenienza economica, assumiamo che quest’ultima sia la legge fondamentale alla quale sono subordinate. Già accade che i ricercatori rinuncino a studiare malattie la cui rarità rende le cure poco redditizie per le case farmaceutiche. Per fortuna, la ricerca della Banca d’Italia ha dato risultati più che positivi. Ma se si valuta economicamente l’istruzione si accetta il rischio che lo studio possa non essere più considerato un diritto e che se ne debba dimostrare l’utilità. Molto probabilmente, anzi (quasi) sicuramente un tale rischio è ancora lontano. Qui mi preme, però, segnalare la forma mentis che sta pervadendo la cultura del nostro tempo. A ben vedere, il politeismo dei valori più che al relativismo ha aperto alla dittatura dell’utilità economica, che costituisce l’unico parametro di giudizio sopravvissuto, al quale in un modo o nell’altro tutti sentono la necessità di fare riferimento, forse nella convinzione del suo fondamento tecnico.
Che senso ha, dinanzi al popolo egiziano che protesta in piazza contro il tiranno, denunciare i miliardi persi con la fuga dei turisti? Nessuno (non posso, certo, credere che i giornalisti volessero indebolire la protesta!). Epperò, è stato detto e scritto, forse per rendere la cronaca più completa. Ma, al contempo, sarebbe un grave errore sottovalutare il significato di questo riferimento quando viene a commentare uno dei più grandi eventi del nuovo secolo.
 
Parlare di Pil a proposito della cura delle malattie, di ritorno economico dell’investimento nell’istruzione, di miliardi svaniti durante le rivolte per la libertà mostra, e dimostra, come quello dell’utilità economica sia diventato un imperativo categorico, che oggi orienta la parola, ma domani rischia di determinare le decisioni politiche. La stampa ha attribuito al ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, il giudizio tranchant: “Con la cultura non si mangia”. Poco importa se sia vero o meno. Viene alla mente l’altra, e di segno opposto, espressione, quella di “giacimenti culturali” che viene attribuita all’allora ministro del Lavoro Gianni De Michelis a proposito delle potenzialità di sviluppo che reca in sé il patrimonio storico e culturale del nostro Paese. Non è un caso che il ministero deputato a valorizzarlo si chiami “ministero dei Beni e delle attività culturali”.
Il nesso, a seconda dei casi, negativo o positivo tra cultura ed economia è tracciato. Si badi: è un bene che la cultura possa essere volano economico, ma è un male se la cultura possa e debba essere giudicata per la sua utilità economica. Nel suo recente libro sull’importanza del sapere classico, Non per profitto, Martha Nussbaum scrive: “C’è un pregiudizio politico sulla conoscenza inutile. Non bisogna leggere grandi libri, ma ci si deve abituare al pensiero critico”. E ricorda come la storia abbia dimostrato la fragilità del dogma
di un certo pensiero liberal-liberista secondo il quale la crescita economica porta con sé la democrazia. La Cina è un regime e la Repubblica Sudafricana è stata, per anni, un sistema di apartheid.
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