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I giorni che fecero l’Italia

A voler restare fedeli al contesto politico-storico, alle finalità sociali sulle quali i partecipanti si soffermarono alla settimana camaldolese del 1943, alle incertezze di approfondimenti che non si rivelarono puntuali, dovremmo subito sgombrare il campo da un mito, secondo il quale le riflessioni Per la comunità cristiana, principi dell’ordinamento sociale, abbiano costituito il retroterra culturale
della futura Democrazia cristiana. O soltanto del gruppo di Cronache Sociali di Giuseppe Dossetti. Non fu così. Accadde soltanto sotto il riguardo economico-sociale – e non sotto l’aspetto cultural-politico-costituzionale – che quella settimana di studi esercitò una sicura influenza su parte della successiva classe dirigente di ispirazione cattolica in epoca postfascista.
 
Intanto va precisato che Camaldoli era sede sin dal 1936 – in pieni “anni del consenso” al regime – di incontri fra intellettuali cattolici non assorbiti dal richiamo dei Littoriali. Va detto inoltre che il titolo Codice di Camaldoli fu escogitato successivamente, per meglio precisarne l’affinità col Codice di Malines del 1927 che, in una Europa che andava avvertendo un processo di disgregazione peggiore del primo conflitto mondiale, stava facendo ragionare alcuni settori cattolici sensibili ai temi sociali sulla opportunità di individuare una linea discostantesi sia dal capitalismo liberistico che dal marxismo massificante. Ai partecipanti all’incontro del luglio 1943 furono distribuiti, a mero titolo di conoscenza, 90 copie del Codice di Malines. Soprattutto, va specificato che l’Europa, e non soltanto la piccola Italia, era un continente ancora strutturalmente rurale, scarsamente industrializzato, con una tendenza a evidenziare il valore creativo di artigianato e affini.
Rimane in piedi, piuttosto, un dato certo: parecchi dei partecipanti alla settimana camaldolese (18-24 luglio 1943) sarebbero stati i principali economisti dei decenni democratici: Sergio Paronetto (scomparso prematuramente), Pasquale Saraceno, Ezio Vanoni, Mario Ferrari Aggradi. È perciò attorno alle biografie di tali personalità che occorrerebbe scavare per individuare in quale misura i loro orientamenti sociali e le proposte operative in cui costoro si distinsero, diedero corpo ad una cultura economica originale, contribuendo ad arricchire il pensiero politico democratico cristiano. Che era invero meno angusto e più complesso.
 
L’assunto convincente è che il quadro valoriale attorno al quale si impostano progetti (o soltanto ipotesi di evoluzione complessiva dello Stato e di responsabilità di una parte significativa di intellettualità di ispirazione cristiana) tende a riaffiorare ogni qual volta un modello cultural-politico a lungo in vigore mostra tutta la propria caducità e suggerisce la necessità (meglio l’urgenza) di guardare oltre il vissuto recente.
Nel tempo della globalizzazione e della rapida comunicazione tale necessità si impone in maniera pressante: su tutti i quadranti internazionali. Inevitabile un punto di domanda. C’è sufficiente coscienza, nei dintorni dei politici italiani, che l’insignificanza cui allude il pontefice tedesco, non riguarda la quantità di voti raccolti (o raccoglibili) da questo o quel gruppo, o parte di aggregazione, bensì l’insufficienza di cultura politica in generale, ed economica in particolare, che li caratterizza? Si potrebbe anche sostenere che la scarsa significanza del pensiero politico cattolico (non solo in Italia) è oggi inversamente proporzionale al prestigio universale raggiunto dai due ultimi pontefici stranieri. La Chiesa è cambiata, ed è in continua evoluzione, in un mondo che sta velocemente mutando, anche se non necessariamente in meglio. La strapotenza economica della Cina, estremamente avanti nei confronti della vecchia Europa, non ha quasi sfiorato la questione non marginale dello sfruttamento della forza lavoro e della misconoscenza dei diritti elementari (non soltanto politici) dell’uomo.
 
Il punto di insufficienza culturale è nell’odierno laicato cattolico. Che aveva una propria autonomia persino in una Chiesa non insofferente ai regimi fascisti europei e, oggi, neppure compie sforzi seri per analizzare i problemi del presente e, dunque, men che mai quelli di un domani non mutabile in maniera fatalistica. Si pensi che, a Camaldoli 1943, non si discusse soltanto di vita familiare, di vita economica, di vita sociale, ma anche di Stato e di ordine internazionale: su questi ultimi due argomenti, furono essenziali i contributi di Gonella, Amorth, Balladore Pallieri, che ben si connessero alle riflessioni economiche di Saraceno e Vanoni (e viceversa). Sicché si affermò la convinzione che nell’età industriale un sistema corporativo (e quello suggerito da Toniolo lo era) non è conciliabile con la democrazia e quasi «esige non solo la dittatura, ma ancor più il partito unico» (Taviani, Civitas, luglio-agosto 1988).
Su questo punto essenziale Camaldoli 1943 rappresentò una svolta. È opportuno non dimenticarlo in un momento in cui l’autarchismo egoistico che si cela nelle pieghe di un localismo narcisista e imbelle pretende di affermare che gli interessi bottegai d’una inesistente Padania possano guidare la mente dei massimi responsabili dei destini di un mondo in fiamme.
Il problema da porsi non è, insomma, di individuare dove sia riconducibile qualsiasi fonte di pensiero economico, ma dove vi siano e come sono espressi pensieri politici innovativi e solidali in grado di collegarsi senza presunzioni o priorità scientifiche col resto del mondo. La ricerca d’una bussola d’orientamento è cosa diversa dalla bussola in sé: che può essere vecchia, datata, già in se stessa discutibile o tecnologicamente arretrata.
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