Skip to main content

DISPONIBILI GLI ULTIMI NUMERI DELLE NOSTRE RIVISTE.

 

ultima rivista formiche
ultima rivista airpress

Ma il circolo vizioso va spezzato

Partiamo da quella che una volta si chiamava l’analisi concreta della situazione concreta, prima di tirare conclusioni sul ruolo delle fondazioni di origine bancaria. Il comitato di Basilea ha pubblicato nel dicembre 2010 le nuove regole sul capitale e sulla liquidità delle banche. “Se la riforma fosse stata in vigore nel suo insieme già alla fine del 2009 le banche dei Paesi del G20 avrebbero mostrato esigenze di capitalizzazione pari a circa 600 miliardi di euro per raggiungere un common equity ratio del 7%. I gruppi bancari italiani avrebbero registrato un fabbisogno di capitale di qualità primaria pari a 47 miliardi”, così scrive la Banca d’Italia nella sua ultima relazione all’assemblea. Il processo di ricapitalizzazione è cominciato.
 
Nei primi mesi di quest’anno sono stati effettuati aumenti di capitale per oltre 11 miliardi a fronte di 4 miliardi del 2010. Se teniamo per valide le simulazioni dei test, ci sarebbe bisogno ancora di 32 miliardi di euro. Una somma consistente, paragonata a un patrimonio di vigilanza che ammonta a 227 miliardi nell’insieme del sistema bancario e 136 per i primi cinque gruppi bancari. Bankitalia ricorda che “nel confronto internazionale le grandi banche italiane continuano a caratterizzarsi per livelli di patrimonializzazione più contenuti. Alla fine del 2010 il tier 1 ratio relativo all’intero patrimonio base di un campione di 12 grandi banche europee era pari in media al 12,1%. In Italia è aumentato di quattro decimi, ma non supera il 9,3”.
 
Chi paga? Finora, soprattutto le fondazioni. L’altra fonte è rappresentata dagli accantonamenti e dalla patrimonializzazione degli utili (insomma dividendi addio o quasi), con risultati solo nel medio periodo, anche perché le banche stanno ancora scontando una forte riduzione dei margini di intermediazione e dei profitti. S’aggiunge, a portare un po’ di sollievo, qualche scappatoia: il decreto milleproroghe consente di considerare credito d’imposta quello che era stato finora una sorta di filtro prudenziale che ha sterilizzato parte dei guadagni connessi con il riallineamento del valore fiscale dell’avviamento del valore di bilancio. Resta il problema fondamentale: le banche italiane, che pure hanno evitato salvataggi pubblici e una vera e propria crisi (lo ha sottolineato con sollievo Mario Draghi nelle sue ultime considerazioni finali), sono sottocapitalizzate rispetto alle principali concorrenti. E non solo. Sono poco internazionalizzate e poco efficienti, la loro capacità di generare reddito “rimane debole e incide sulla possibilità di accantonare utili e patrimonio”. Nel 2010 la redditività è ulteriormente peggiorata, e gli utili si sono ridotti del 4,5%, soprattutto a causa della caduta del margine d’interesse non compensata dagli altri ricavi tra i quali le commissioni che pure sono cresciute del 7,8%. Dunque, l’assenza di crolli drammatici o la limitata esposizione verso i Paesi a rischio debito sovrano (solo tre miliardi per la Grecia, altrettanto per il Portogallo e dieci per l’Irlanda), non mette al sicuro nessuno. Nessuno è esente da questa debolezza complessiva del sistema creditizio, nemmeno le popolari a proposito delle quali è più che mai urgente l’esigenza, per quelle quotate, di arrivare a una governance più moderna e democratica. La prima operazione finestra, dunque, è dire la verità.
 
Le privatizzazioni sono passate attraverso la creazione di “ircocervi” (la definizione, ironica e autocritica, viene dallo stesso artefice, Giuliano Amato) come le fondazioni. In questi vent’anni sono cambiate, si sono strutturate, sono diventate più forti. Da Frankenstein a principe azzurro, scrivono Fabio Corsico e Paolo Messa nel loro libro. “Strumento di stabilità rispettoso del mercato”, secondo Guido Rossi il quale le vorrebbe usare anche per ricapitalizzare le imprese industriali, sul modello svedese. Ma le istituzioni non profit scandinave o anche americane, non hanno amministratori di nomina politica. Nel caso italiano, invece, anziché traghetti in grado di portare le banche dalla sponda dello Stato a quella del mercato, le fondazioni rischiano di diventare veicoli di una pubblicizzazione surrettizia. I partiti, usciti dalla porta dei Consigli di amministrazione bancari, sono rientrati dalle finestre locali.
Ci sono alternative? I soci privati delle banche sono pochi e, con rare eccezioni come quella di Francesco Gaetano Caltagirone in Mps o Diego Della Valle in Mediobanca, non hanno il becco di un quattrino. Il capitalismo senza capitali che soleva lamentare Enrico Cuccia, è diventato anche un capitalismo senza capitalisti. I grandi stanno smantellando, i medi imprenditori per lo più debbono impiegare la liquidità che la crisi ha lasciato loro nella ristrutturazione delle attività, gli altri lottano per sopravvivere. Si è creato un avvitamento mostruoso che vede le banche dominare la Borsa, la quale è troppo asfittica per soddisfare la loro fame di capitali. Il Catoplebe evocato da Raffaele Mattioli, l’essere mitologico che mangia i propri piedi, si è materializzato di nuovo.
 
Siamo, dunque, in un circolo vizioso. È possibile spezzarlo? Nell’interesse del Paese, bisogna spezzarlo (tra l’altro, la difficile ricapitalizzazione del Monte dei Paschi mostra i limiti delle stesse fondazioni). La soluzione non è affidarsi a qualche capitano più o meno coraggioso, la via maestra è trasformare davvero le banche in public companies, le grandi soprattutto. Per questo, bisogna far crescere, non deprimere, il capitalismo di massa che passa attraverso strumenti come i fondi pensione. Una certa retorica apocalittica ha accusato la globalizzazione e l’eccesso di finanza, ringraziando il Signore perché in Italia siamo più arretrati, e così ci siamo difesi dal grande crack. Oggi noi vediamo che i fondi made in Usa sono tornati sopra il livello ante-crisi. Le performance vanno misurate sul lungo periodo, in questo caso i pensionati americani, grazie a Wall Street, non stanno poi tanto peggio di quelli italiani che si sono affidati all’Inps. Tra le riforme strutturali indicate da Draghi nel suo commiato, dunque, bisogna aggiungere quella del mercato finanziario che porta in pancia, come una matrioska, anche una riforma delle fondazioni (sottraendole alla politica) e del sistema bancario.
×

Iscriviti alla newsletter