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Accendiamo la luce…

Bere acqua potabile, far funzionare gli ospedali, supportare la filiera agroalimentare, accedere al mondo delle comunicazioni, raccogliere i rifiuti urbani, generare reddito attraverso servizi, produzione, commercio. Tutte attività che un miliardo e 800 milioni di persone, di cui il 99% vive nei Paesi a basso reddito, stenta a condurre per mancanza di accesso all’energia. I 600 milioni di africani contano per lo più sulla propria forza muscolare per portare avanti le attività quotidiane: vanno a piedi al lavoro, lavorano nell’agricoltura con le mani impiegando moltissimo tempo per completare lavori noiosi e pesanti, camminano chilometri per raccogliere acqua e legna.
Nella gran parte dei Paesi centrafricani, il consumo pro-capite annuale di energia si colloca tra i 22 e i 200 kWh (dati Unhabitat). Lo stesso dato in Italia schizza a 4.983 kWh (dati Terna). In termini pratici, questo significa che 2,4 miliardi di persone non dispongono dei servizi sanitari di base, un miliardo non ha accesso all’acqua potabile, 850 milioni di persone sono analfabete, 800 milioni soffrono di denutrizione cronica.
 
Il legame tra accesso all’energia e sviluppo è dunque evidente. Per moltissimo tempo, l’argomento è stato largamente sottovalutato da governi e organismi internazionali. Da quando però la questione ambientale si è imposta nell’agenda politica dei Paesi industrializzati, sempre più attori hanno iniziato a studiare il problema dell’accesso all’energia e a prevederne alcuni sbocchi futuri.
La mancanza di accesso energetico nei Paesi a basso reddito è certamente legata all’assenza di tecnologie, ma non è l’unica causa. Sono diversi i Paesi che posseggono le materie prime ma non riescono a tradurle in efficienza energetica. Le radici del problema sono quindi più profonde e vanno ricercate nell’assetto strutturale del Paese. A livello politico, ad esempio, la rilevanza del tema è stata percepita solo recentemente da parte delle istituzioni e gli organismi internazionali che hanno quindi iniziato a indirizzare i finanziamenti verso l’efficienza energetica. Nel 2002 a Johannesburg è stato lanciato il programma Eu Energy iniziative for poverty eradication and sustainable development con gli obiettivi di migliorare l’accesso all’energia nelle aree rurali e periurbane, sostenere le governance e favorire gli investimenti internazionali.
Molti Stati del sud del mondo hanno finora prediletto lo sfruttamento dei combustibili fossili perché più redditizio e meno costoso rispetto alle energie rinnovabili.
 
Sappiamo che le scelte economiche in campo energetico sono spesso vincolate alla disponibilità finanziaria: le possibilità di investire in grandi infrastrutture sono poche in questi Paesi e se i Paesi industrializzati sono i principali investitori nel settore delle rinnovabili è proprio perché possono sopportarne i costi ancora molto elevati.
In un contesto del genere, il ruolo della cooperazione internazionale è sempre più determinante e consente di intervenire laddove gli Stati non arrivano e le imprese spesso non hanno convenienza a investire. Le Ong operano spesso in mercati ancora inesplorati, ma non è detto che tali mercati non saranno appetibili nel futuro. Non lo erano i Bric (Brasile, Russia, India e Cina), e già ora qualcuno parla delle nuove tigri africane. Cooperazione, quindi, e partnership profit/no profit potrebbero essere interessanti strumenti di intervento per contribuire concretamente al problema dell’energy divide tra nord e sud del mondo.
Anche i finanziatori istituzionali sembrano auspicare una collaborazione tra profit e no profit sui progetti di cooperazione: nei piani di finanziamento della Commissione europea sui progetti di Energy facility, le aziende sono chiamate alla partnership apportando capitali, know how o tecnologia. Due progetti di Coopi, in Malawi e in Etiopia, sono stati finanziati attraverso il progetto Energy facility.
In Malawi in partnership con Fera (Fabbrica energie rinnovabili alternative), che con i propri capitali e know how contribuirà alla realizzazione di un impianto eolico che porterà energia ai circa 10mila abitanti dell’isola di Likoma. In Etiopia, sarà il Festival dell’Energia a lanciare un appello agli investitori interessati, per un viaggio di conoscenza del contesto dove il progetto verrà realizzato. Interventi importanti, che probabilmente saranno solo l’inizio di un processo di elettrificazione di intere regioni rurali attualmente al buio.
 
Nel settore energetico però Coopi ha già al suo attivo esperienze significative: il primo programma sull’accesso all’energia risale agli anni ‘90. Da oltre 20 anni, ormai, Coopi sostiene con i Padri salesiani progetti di sviluppo nella regione di Kami, in Bolivia. L’obiettivo del programma era quello di realizzare una rete di trasmissione dell’energia elettrica generata dalle centrali idroelettriche di Chinata e di Quehata, nel dipartimento di Cochabamba. All’inizio sono stati i missionari salesiani ad occuparsi delle attrezzature e della manodopera; in seguito invece questo compito è passato ai dipendenti di Terna: attraverso dei particolari e intelligenti programmi di volontariato aziendale: i tecnici dell’azienda italiana hanno portato avanti diverse missioni a Kami, per contribuire con le proprie competenze alla gestione e al potenziamento della nuova rete elettrica e alla formazione di una manodopera locale qualificata.
Oggi i 37 km di rete elettrica producono circa 2mila Kw di energia che viene distribuita fino a 80 km di distanza dal centro di produzione raggiungendo più di 20mila persone appartenenti alle comunità campesine di Aymara e Quetchua.
Un’impresa che sembrava impossibile ma che grazie alla determinazione dei suoi protagonisti è diventata realtà. A Kami ora c’è l’elettricità. In casa hanno la luce e l’acqua corrente, in ospedale hanno aperto una nuova sala parto così le mamme non devono percorrere chilometri per dare alla luce i loro figli. L’energia ha ridato vita a un’intera comunità.
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