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Quel che si aspetta il mercato

La verifica sulla solidità “politica” dell’euro voluta dal mercato internazionale ha consentito di istituzionalizzare un mito dei gruppi dirigenti “ortodossi” europei – il bilancio pubblico in pareggio – che la scienza economica aveva dimostrato essere infondato. Occorre domandarsi il perché questa verifica non ha riguardato tutti i Paesi, in particolare gli Stati Uniti, che vivono di deficit pubblico elevato quasi come la Grecia.
 
Una spiegazione può essere quella che il mercato si aspetta che prima o poi il dollaro per usi internazionali dovrà cedere il passo all’euro, che già aveva sfiorato il 25% delle riserve ufficiali mondiali, o a uno standard internazionale, come sarebbero gli Sdr “riformati”, a seguito delle sollecitazioni dei grandi Paesi creditori, Cina in testa. Sul piano logico, ci saremmo dovuti aspettare che la sostituzione partisse da un attacco al dollaro, ma il mercato ben capisce che, se non ha un’alternativa valida, si deve tenere la valuta con la quale oggi agisce e sulla quale ben guadagna. Meglio quindi essere certi che l’euro ha le caratteristiche necessarie per procedere sulla strada che la conduce a essere moneta di riserva, ben sapendo che percorrere quella di portare gli Sdr a esserlo è un itinerario ancora più impervio.
 
Alcuni hanno interpretato l’attacco all’euro come una congiura per liberare il dollaro da un temibile concorrente. Forse anche questa forza è in azione, ma è improbabile che sia quella dominante. Il mercato sa fare i suoi calcoli di lungo periodo e ben conosce che gli Stati Uniti non reggono il peso dei twin deficit (pubblico e estero) e che invece l’Europa punta a non avere né l’uno, né l’altro.
La istituzionalizzazione del mito sancisce un altro mutamento geopolitico non meno importante, quello che l’economia prende il sopravvento sulla politica, in linea con una previsione di Marx sugli sviluppi del capitalismo globale dalla quale tuttavia i suoi seguaci hanno tratto conseguenze politiche errate. Emanuele Severino ha giustamente commentato che aver creato l’euro prima del completamento dell’unificazione europea è stato un suicidio della politica, come lo è stata l’aver assecondato la globalizzazione per la sovranità degli Stati-nazione.
 
Ove si escludano gli Stati Uniti, che con Obama sono arrivati in ritardo nell’attuazione di un welfare più incisivo, gli altri Stati, con quelli dell’Unione europea in testa, hanno approfittato della crisi dei debiti sovrani per ridimensionare la rete assistenziale e portare a carico del contribuente gli oneri per mantenerla in vita sostanzialmente pubblica, con tutte le inefficienze che questo status comporta. Perduto il vincolo esterno del “pericolo” comunista, il capitalismo ha ripreso i suoi vecchi vizi di non tenere conto che i suoi guadagni dipendono anche dal loro totale ritorno nel circuito produttivo sotto forma di spesa, meglio se per investimenti innovativi. Fu Kalecki ancor prima di Keynes ad avvertire che i profitti dipendono dai comportamenti dei capitalisti e non da quelli dei lavoratori: gli investitori sono infatti gli artefici delle loro stesse fortune.
 
In queste condizioni generali geopolitiche l’Italia resta stretta tra la crisi della finanza mondiale e quella dell’euro, soprattutto a causa dell’accondiscendenza mostrata nel consentire all’indebitamento pubblico di eccedere i limiti di guardia (che non conoscevamo in pratica, ma almeno “per Trattato”, a livello del 70% del Pil) e nel cullarsi nell’idea che non saremmo mai potuti entrare nel club dei Pigs. Ora ci siamo e il problema, non a caso come una moneta, ha due facce. La prima il deficit pubblico e la seconda il rapporto tra debito pubblico e Pil. Pur con tutte le esitazioni sulle scelte e incertezze sulla loro efficacia, la manovra approvata dal Parlamento è capace di azzerare il deficit, bloccando l’alimentazione del rapporto se il premio al rischio, come probabile, scende. Tuttavia questo premio è anche legato all’elevatezza del rapporto debito pubblico/Pil, che rimarrebbe ben superiore di 50 punti percentuali di Pil rispetto ai parametri di Maastricht e alla logica economica più elementare. Non si conosce quali siano le ipotesi sul costo medio dell’indebitamento dello Stato prese a base dei calcoli per l’azzeramento necessario, né se si è tenuto conto della probabile caduta della crescita del Pil reale (che potrebbe essere “compensata” dall’aumento dell’inflazione indotta dai provvedimenti presi, soprattutto per l’Iva), né degli oneri che l’Italia dovrà sostenere per i “salvataggi” dei debiti dei Paesi europei in difficoltà.
 
In conclusione il primo passo verso il risanamento è stato fatto, nonostante qualche incognita sulla dimensione, ed è ora necessario procedere all’abbattimento del livello del debito con un programma pluriennale che non punti più sull’avanzo primario di bilancio, in quanto deflazionistico e, quindi, con effetti perversi. Esistono più proposte – quelle di Giuseppe Guarino, di Giorgio La Malfa e del sottoscritto e quella interessante di Andrea Monorchio e Guido Salerno Aletta – ma manca la volontà politica di procedere perché tutte implicano la rinuncia al patrimonio dello Stato e degli Enti locali (che godono di autonomia decisionale, ma non possono chiamarsi fuori dal risanamento del debito pubblico) sui quali vive la politica centrale e periferica che non mostra di voler rinunciare ai privilegi connessi. Eppure deve convincersi per il suo stesso bene. Oltre che per quello del Paese.
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