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Ricetta giusta, governanti sbagliati

La discussione sul tema dell’imposta patrimoniale nel risanamento dei conti pubblici, nonostante molti erculei sforzi – da ultimo l’eccellente analisi di Guido Tabellini sul Sole 24 ore dello scorso 18 settembre – resta confusa, forse anche perché fa comodo confonderla.
Grazie anche al contributo dell’Assonime (si veda il capitolo fiscale nel documento “Idee per il riequilibrio dei conti pubblici”, giugno 2011), si è allargato il consenso sull’esigenza di tassare i patrimoni come parte essenziale di qualunque disegno di riforma dei tributi, per fondamentali ragioni di equità (l’85% del gettito dell’imposta sui redditi personali deriva da lavoratori dipendenti e pensionati, i cui redditi ristagnano ormai da oltre un decennio, mentre il rapporto tra il patrimonio e il Pil continua ad aumentare), ma anche di efficiente ripartizione dei carichi tributari (la sottotassazione degli immobili e delle rendite finanziarie genera incentivi a concentrare gli impieghi del patrimonio in questi impieghi, a scapito di impieghi più produttivi).
 
Si tratta, visibilmente, di introdurre un prelievo annuale continuativo con aliquota moderata e uniforme – tra lo 0,1 e lo 0,25 per mille – su tutte le forme di impiego patrimoniale, senza esenzioni, dunque includendo anche la prima casa, i titoli di Stato e gli impieghi liquidi. Oltre alla ricomposizione del gettito, una tale imposta favorirebbe anche la mobilizzazione delle forme improduttive di impiego, ad esempio delle case sfitte, stupidamente esentate nel decennio scorso nella frenetica rincorsa populistica tra i due poli che si contendono il consenso elettorale, ristabilendo così anche una base meno effimera per le finanze comunali, che da quella esenzione sono state devastate, perdendo la principale base autonoma di gettito e diventando ostaggi dei trasferimenti dello Stato, contro ogni ipotesi federalistica. Creando spazio per l’abbattimento delle imposte sulle imprese migliorerebbe la legittimazione del sistema, correggendone fondamentali iniquità, e la sua trasparenza. Per tutti questi motivi abbiamo proposto di sostituire al nome di imposta patrimoniale quello di “contributo per la trasparenza e la crescita”, che ne riflette meglio le caratteristiche e gli effetti.
 
Questa forma di imposizione patrimoniale è visibilmente del tutto diversa rispetto alle proposte che si rincorrono da mesi di abbattere il debito pubblico con un prelievo una tantum pari a 30-40 punti percentuali del Pil. Tali proposte sono da respingere per due ottime ragioni. La prima è ben spiegata nel commento che richiamavo poc’anzi del professor Tabellini: se riuscisse, si tratterebbe dell’ennesimo “colpo mancino” sui risparmiatori, con effetti devastanti sulla fiducia e la disponibilità a investire in Italia. Per riuscire, dovrebbe colpire in misura sproporzionata impieghi liquidi e precauzionali del risparmio, mettendo in grave difficoltà le famiglie italiane e comprimendo in maniera sproporzionata i consumi. Se fosse efficace nel colpire anche gli impieghi illiquidi, potrebbe condurre a liquidazioni coatte di patrimonio, con effetti generali di distruzione di ricchezza molto più ampi degli obiettivi di prelievo. Idee anche sofisticate tese ad aggirare questo problema trasformando il prelievo in crediti dello Stato migliorerebbero la posizione debitoria pubblica solo apparentemente e non potrebbero convincere i mercati: sarebbe window dressing, non vera riduzione del debito.
 
La seconda ragione è anche più rilevante: coloro che si trastullano con queste ipotesi in realtà hanno il vero obiettivo di continuare le allegre gestioni che ci hanno già portato a sbattere di nuovo contro il muro, come già era avvenuto nei primi anni Novanta. L’idea trasparente dietro i molti “patrimonialisti”, infatti è senza dubbio quella di ricreare spazio per spendere di più, o almeno per mantenere gli insostenibili attuali livelli di spesa pubblica – servizi e trasferimenti, certo, ma anche redditi e pensioni troppo elevati, insopportabili sprechi e livelli di corruzione. Se si potesse ridurre di un quarto o di un terzo l’onere di interessi sul debito pubblico, pari oggi a oltre 80 miliardi di euro, ecco un bel gruzzoletto da spartire senza più cambiare nulla nei disastrosi meccanismi di spesa che ci hanno condotto all’attuale situazione e hanno soffocato ogni impulso di crescita nell’economia. È fin troppo semplice vedere perché questa idea piace a sinistra come a destra, e a tutti gli innumerevoli percettori di sussidi e protezioni a carico della mano pubblica.
 
Del resto, se proprio si volesse abbattere il debito pubblico più rapidamente e insieme risanare il settore pubblico, esiste una semplice alternativa: vendere le mille proprietà mal gestite dal settore pubblico, le utility devastate dall’occupazione partitica, le aziende più o meno fittizie create a ogni livello di governo per avere posti e prebende da distribuire. Questa è la vera operazione patrimoniale molto benefica da compiere: smantellare una gigantesca mano morta pubblica, serbatoio di inefficienza e di malaffare. Naturalmente, evitando di ricominciare con le vendite fittizie e le cessioni di attività a compari a condizioni di favore: cose che non cambierebbero né la situazione patrimoniale dello Stato, né l’efficienza del sistema economico. Non dimenticando di costruire solidi presidi di regole e sorveglianti veramente indipendenti a tutela degli interessi pubblici, laddove si tratti di privatizzare aziende di pubblico servizio (anche qui, il record passato non è incoraggiante).
 
Dunque, meglio convincersi che non ci sono scorciatoie, che il risanamento del settore pubblico passa per la revisione dei meccanismi della spesa, delle pensioni e del welfare prima di tutto, e l’espulsione della politica dalla gestione di appalti, forniture e assunzioni. Da operazioni sul patrimonio con questa classe politica e queste istituzioni, così mal ridotte dalla mala politica, dobbiamo guardarci come dalla peste.
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