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2012, l’anno della discontinuità

Un anno fitto di appuntamenti elettorali il 2012, dalle presidenziali di grandi Paesi come Stati Uniti, Russia e Francia a quelle delle assemblee legislative dei Paesi protagonisti della Primavera araba. A prima vista appare difficile identificare un denominatore comune per eventi così diversi, eppure forse è possibile farlo a partire dalla sensazione che questo biennio sarà probabilmente ricordato dagli storici del futuro come quello della discontinuità. Complice la crisi economica, infatti, la conferma di presidenti, governi e maggioranze parlamentari si preannuncia come altamente improbabile quasi ovunque. La sconfitta socialista in Spagna rischia di essere solo la prima di una lunga sequela di “batoste” per i governi uscenti, a prescindere dalla loro collocazione nel continuum destra/sinistra. Se la speculazione non mollerà la sua presa sul debito sovrano francese, anche la rielezione di Sarkozy potrebbe farsi difficile. E lo stesso presidente degli Stati Uniti, Barack Obama potrebbe chiudere dopo un solo mandato la sua esperienza alla Casa Bianca.
 
Ma è il Mediterraneo il teatro che potrebbe riservare le maggiori sorprese. Per la prima volta da moltissimi anni le elezioni arabe potrebbero assumere il carattere di un test non truccato, capace di misurare gli orientamenti delle opinioni pubbliche. Evidentemente, non è per nulla detto che ovunque tutto si svolga con la regolarità e la tranquillità che ha contraddistinto le elezioni dell’Assemblea costituente tunisina. In Egitto le avvisaglie di fine mese sono state pessime e i militari non hanno esitato a fare fuoco sulla folla, quando questa ha chiesto un sostanziale ridimensionamento del loro potere. In Libia la situazione è ancora estremamente fluida ed è difficile immaginare che una qualunque consultazione possa svolgersi in condizioni di normalità minimamente accettabili. Ma è lo stesso risultato delle consultazioni che potrebbe a sua volta causare più di un turbamento al delicato equilibrio regionale. Particolarmente in Europa, la prospettiva di una possibile affermazione di partiti di ispirazione islamista è guardata con forte preoccupazione.
 
Il risultato delle elezioni tunisine potrebbe aver rappresentato solo l’anticipazione di un fenomeno di più vasta portata, che in Paesi come l’Egitto e la Libia potrebbe assumere tinte ben più radicali. In una simile eventualità, è evidente che qualunque politica di chiusura da parte europea sarebbe controproducente e pericolosa. Pensare di applicare al litorale nordafricano la politica adottata nei confronti della Striscia di Gaza è impensabile, così come sarebbe un atteggiamento puerile aspettarsi che opinioni pubbliche molto conservatrici e religiosamente orientate non premino, in elezioni libere, quei partiti che meglio rappresentano e incarnano simili posizioni. Probabilmente, la sola via percorribile per l’Europa resterebbe quella di fare buon viso a cattivo gioco, evitando accuratamente tutti quegli atteggiamenti che potrebbero far percepire l’occidente come un nemico del nuovo corso. Tutto sommato è già quasi miracoloso che questo non sia avvenuto in questa annata rivoluzionaria, nonostante i rapporti di stretta amicizia e sostegno che legavano i governi europei ai regimi di Ben Ali, Mubarak e Gheddafi. Probabilmente la rapidità con cui è stato “scaricato” il rais egiziano e ancora di più la decisiva assistenza militare prestata agli insorti contro il colonnello di Tripoli hanno sopito le tradizionali polemiche anti-imperialiste.
 
Certo è che se da Tunisi al Cairo dovessimo assistere a una vittoria dei partiti islamisti potremmo ritrovarci a dover fare i conti con una crescita netta dell’influenza saudita e quatariota nella regione. I due regimi della Penisola arabica hanno fin qui giocato una partita accorta, fornendo ai rivoluzionari sia i mezzi finanziari sia quelli informativi cruciali fin dalla fase di incubazione delle rivolte. Per ora le rivalità tra le due capitali sono rimaste sotto traccia, anche se c’è chi ritiene che la corte saudita non sia troppo contenta del ruolo crescente del piccolo emirato.
 
È tuttavia qualcosa di differente da un turno elettorale l’evento che potrebbe sancire un cambiamento di scenario ben più traumatico per l’intera area. La possibile caduta del regime degli Assad a Damasco determinerebbe infatti una serie di conseguenze non tutte facilmente prevedibili, ma sicuramente in grado di ridisegnare gli equilibri regionali. Non a caso, a fronte dell’attivismo turco nella crisi siriana (talvolta piuttosto arraffazzonato) Arabia Saudita e Qatar sono riusciti a mobilitare la Lega araba su posizioni persino più interventiste di quelle a lungo tenute nei confronti della rivolta libica. La preoccupazione, evidentemente, è quella di vedere crescere l’influenza di Ankara su una Siria post-baathista, preoccupazione peraltro alimentata dal sostegno attivo prestato dalla Turchia agli insorti. Oltre alla possibile tensione arabo-turca, il precipitare degli eventi in Siria potrebbe rinfocolare il fronte arabo-iraniano, già peraltro surriscaldato dai crescenti sospetti che Teheran sia ad un passo dalla realizzazione di una bomba atomica. Difficile ipotizzare infatti che l’Iran abbandoni a se stesso il suo solo vero alleato regionale, tanto più nell’ipotesi di un possibile conflitto con Israele innescato proprio dal programma nucleare iraniano. E così, paradossalmente, l’anno caratterizzato dai maggiori e più inattesi cambiamenti avvenuti da molti decenni nel mondo arabo, potrebbe portare alla riedizione della più antica e sopita rivalità del Levante: quella tra arabi, persiani e turchi. Pericolosamente intrecciata però a quel conflitto arabo-israeliano che ha caratterizzato il Medio Oriente per tutta la seconda metà del xx secolo e che oggi rappresenta l’elemento di maggiore ostacolo all’evoluzione pacifica della regione.
 
Rispetto a queste partite in corso, le prossime presidenziali francesi appaiono sinora piuttosto scialbe, non tanto per le figure in competizione, ma perché, come in altri Paesi ricchi democratici e indebitati, la politica è ancora sequestrata dall’economia finanziaria e sostanzialmente subordinata al pensiero unico neoliberista. E questo vale anche per eventuali elezioni anticipate italiane, se il governo Monti non riuscisse a compiere il suo percorso e soprattutto se non cambiassero i parametri politici correnti.
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