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Africa al bivio politico

La nuova configurazione strategica del Maghreb e dell’Africa del nord, dopo le varie “primavere arabe”, non deve farci dimenticare che il Continente nero è, dal punto di vista geopolitico ed economico, una rete di relazioni fortemente integrata, che va dalle economie export oriented del Mediterraneo meridionale, legate ai cicli dei prodotti “maturi” delle economie Ue, fino alle strutture produttive legate al ciclo delle materie prime nell’Africa centrale sub-sahariana, fino alla nuova configurazione industriale della Confederazione sudafricana.
 
Non possiamo prevedere, a tutt’oggi, come sarà il Maghreb dopo le “primavere arabe” e la stabilizzazione del potere del Cnt in Libia, ma è probabile che le nuove economie della Tunisia, dell’Egitto e della Libia, oltre che delle nuove linee riformiste della monarchia alawita del Marocco, acquisiranno finanziamenti da parte di Europa, Usa, Cina e India per generare non una “economia di sostituzione” in ambito di mercati aperti, come è accaduto alla Tunisia di Ben Ali e all’Egitto di Mubarak, ma utilizzando gli aiuti già concessi per sostenere i salari dei dipendenti pubblici e per garantire lo start up di piccole e medie imprese legate al ciclo agricolo e all’artigianato. Una economia che, quindi, avrà sempre più i tratti del sistema di sussistenza, e creerà, come già sta accadendo in Marocco, barriere non tariffarie per evitare che tutti i Paesi dell’area importino la grande inflazione da dollaro e da euro che si sta vedendo all’orizzonte. La Cina è pronta a sostituire gli Usa e la Ue nel quadrante africano e nel Maghreb.
 
Se il processo di democratizzazione andrà secondo i programmi dei decisori europei e Usa, la Cina farà molta fatica a recuperare le posizioni detenute in Libia, in Egitto e in Tunisia prima delle “primavere arabe”, ma avrà dalla sua la capacità di fare business indipendentemente dalla struttura politica di quei Paesi e dalla tipologia della loro rappresentanza popolare. La convergenza tra la rapida crescita della domanda mondiale di alimenti e la fase di forte aumento del prezzo del petrolio al barile nel 2008, la diminuzione delle acque irrigue disponibile e persino la scelta della Ue di obbligare il consumo di almeno il 10% delle energie combustibili a biofuel ha generato una vera e propria corsa alle riserve agricole africane.
 
Cina, in parte la Russia, India, Corea meridionale e le petromonarchie del Golfo stanno impostando una operazione complessa e strategicamente rilevantissima. Possono fare lo switch, il passaggio, tra il loro petrolio e il biofuel per l’occidente, possono controllare la produzione dei materiali per i biocombustibili, espandendo il loro controllo strategico sul Continente africano, prossima area di cleavage, di frattura tra le varie aree di influenza geopolitica mondiale, possono determinare il prezzo del biofuel quando il loro petrolio, è il caso dell’Arabia Saudita, toccherà il picco di esaurimento dei pozzi (segreto di Stato, a Riyadh) e possono infine determinare sia i prezzi finali che il ciclo della finanza speculativa per tutti i titoli collegati ai mercati non oil.
 
Il mondo africano, su questi temi, è diversificato, e promette, in alcuni casi, soluzioni efficaci e rapide. Ma è bene essere chiari: l’occidente non ha più denari sufficienti. Si può pensare, a livello di sistema di aiuti dell’occidente, ad un meccanismo di sostegno sempre meno rilevante tanto più aumentano gli indici di corruzione tra i politici e i pubblici ufficiali di un Paese africano. Il problema è, fondamentalmente, politico: tanto più aumenta la corruzione in Africa, tanto più aumenta il frazionismo politico e la penetrazione di aziende e Stati con progetti pericolosi per l’ambiente e l’economia stessa dei vari Stati del Continente. Se è vero che il “contagio” delle primavere arabe non è arrivato nell’Africa sub-sahariana, niente rimarrà uguale, dopo le rivolte nel Maghreb. Ci sono state proteste popolari in Mali, Mauritania, Uganda, Burkina Faso, Gibuti, ma non si è creato l’innesco di una rivoluzione di massa come quella che ha mandato via Ben Ali e Mubarak, o ha generato la rivolta di Bengazi che si è materializzata nel Cnt libico.
 
Si potrebbe immaginare, nell’Africa sub-sahariana, una diversa tipologia di sistemi politici, per esempio, una “rappresentanza clanica” che arriva al potere distribuendo le risorse marginali alle etnie che sono risolutive per la propria vittoria elettorale, oppure sistemi politici africani dove il leader riesce a dominare e a dettare l’equilibrio tra le tribù e le etnie, e questo era il caso di Muammar El Gheddafi in Libia o anche, precedentemente, di Yomo Keniatta in Kenia, appunto. Oppure possiamo immaginare un leader che ha carisma specificamente religioso, e somma su di sé le cariche del capo spirituale e del leader politico. Un sistema democratico-pluralista che genera una preferenza verso le forze islamiste, pur all’interno di un dibattito interreligioso e nell’ambito di una appartenenza dichiarata al concerto delle nazioni democratiche in lotta, secondo la ingenua ideologia Usa, contro il “totalitarismo” o i “tiranni”. Sarà questa la forma dei sistemi politici prossimi venturi nell’Africa sub-sahariana? È presto per dirlo, ma ci sono alcuni indizi: la presenza di partiti politici nuovi, sia pure del tutto, come diremmo in Europa, “corporativi”, l’assenza sempre minore di una “visione dello Stato” che, secondo i politologi che hanno studiato il policy making in Africa, è un portato della tradizione coloniale dello Stato come ente super partes, il controllo sempre meno facile delle risorse informali per sostenere le proprie constituencies elettorali, che peraltro sono sempre più “care” e sempre più instabili.
 
La democrazia matura dei Paesi occidentali, e i sistemi politici para-democratici africani, sono di fronte ad una trasformazione epocale: da una società dalle aspettative crescenti, che stimolava la rappresentanza e diminuiva progressivamente il peso del clientelismo negli apparati politici, siamo arrivati ad una “società a somma zero” anche per i più poveri tra i cittadini, nella quale le risorse compartimentate sono il risultato di una spoliazione, spesso legale, di altri gruppi ugualmente rappresentati. E allora, quale democrazia?
 
La democrazia della rappresentanza dei gruppi già organizzati; oppure una regionalizzazione spinta della rappresentanza; ancora una separazione di fatto e di diritto, o una statalizzazione dei partiti come, probabilmente, avverrà in Egitto e in Tunisia? Come si vede, la retorica democrazia liberale-tirannia non riesce a spiegare l’universo partitico africano e nemmeno quello dell’Europa dell’est o della Cina dalle “quattro modernizzazioni” in poi. E cosa ne è del rapporto tra tecnocrazia e sistema politico, in Africa? La tecnocrazia ha avuto grande rilievo nella ristrutturazione delle proprietà agricole in Zimbabwe, per esempio, o ha costituito, anche grazie ai militari, l’asse della modernizzazione sia durante il periodo di Mubarak sia dopo, in Egitto. Il controllo diretto delle risorse da parte dei funzionari, a parte i pericoli di corruzione di cui abbiamo già parlato, permette ad essi la creazione di una constituency che può essere utilizzata per fini elettorali (è accaduto in Sud Africa) o per un rapporto di intermediazione, anche del tutto legale, con gli investitori stranieri, e questo è accaduto, per esempio, nelle aree diamantifere dell’Africa centrale dopo gli accordi di Kimberley, a parte la quota di mercato illegale che si è originata dal nuovo sistema internazionale di commercializzazione delle pietre preziose.
 
Allora, la domanda viene spontanea: è possibile una tecnocrazia autonoma e modernizzatrice, nell’Africa sub-sahariana? Anche qui la risposta è si e no. Esiste un clientelismo tecnocratico, che gestisce i fondi sociali e le reti di sostegno sociale per le campagne e le zone a minor reddito medio. È un fenomeno diffuso in tutto il Continente. Ma esiste una tecnocrazia che “si fa Stato”, raccoglie i dati, li analizza, gestisce le riforme “inclusive” finanziate dalla comunità internazionale sia per un dovere verso il proprio popolo (l’idealismo è più diffuso di quanto non si creda) sia per divenire i referenti unici delle relazioni economiche tra i donors internazionali e il Paese di origine. Una azione di “internazionalizzazione dell’economia di sussistenza” che possiamo osservare in quasi tutti i Paesi dell’Africa sub-sahariana. Non vi è democratizzazione senza riforma economica e sociale, non vi è rappresentanza senza relativa autonomia, anche economica, dei corpi sociali, non vi è democrazia moderna senza la cultura dell’individuo tipica del complesso sviluppo, tra religione, laicità, lotta politica e nuove forme di rappresentanza, che ha caratterizzato la cultura politica europea e Usa dalla fine del ‘500 fino ad oggi.
Come dice Nelson Mandela, “sogno un’Africa in pace con se stessa”.
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