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Il lavoro al tempo della società liquida

Per capire come il tema del lavoro è divenuto centro delle analisi politiche non basta andare alla fine dell’‘800, quando la prassi si è fatta ideologia, ma bisogna risalire alla notte dei tempi. La Genesi dà prova di questo, rilevando un connubio reale, effettivo tra esistenza umana e lavoro che trascende i dettami squisitamente religiosi ed evoca le origini del genere umano. D’altronde, essere soggetti spirituali, individualmente corporei, non può che rendere gli uomini materialisti per vocazione. Ovviamente, il lavoro è divenuto perno della lotta politica solo nel ‘900 a seguito della suddivisione dei cittadini in classi contrapposte: proprietari di capitale, da un lato, e proletari prestatori d’opera, dall’altro. Uno schema, nondimeno, che una volta formulato ha perduto subito aderenza. Non a caso già negli anni ‘50 Amintore Fanfani preferiva parlare di “promotori” e “collaboratori”, sfumando la sterile bipartizione manichea su cui si reggeva la sostanziale diarchia internazionale tra capitale e lavoro.
 
La vera rivoluzione è arrivata finalmente con Giovanni Paolo ii, in particolare con l’enciclica Laborem exercens del 1981, un documento che segna il tramonto ideologico del comunismo. Papa Wojtyla ribadisce la centralità della questione sociale. Seguendo Pio xi, considera il primato della sussidiarietà su qualsiasi sovrastruttura totalitaria. Ma, soprattutto, distingue nettamente la “soggettività” del lavoro dal suo svolgimento “oggettivo”.
Il lavoro non è una funzione operativa, e non è una performance specifica fabbricata dalla legge. Il lavoro è espressione fisica della dinamica dignità spirituale di ogni uomo e donna, inscindibile dalle facoltà ultime della persona, com’è indissociabile in ognuno la volontà dall’intelligenza. Accogliere il portato antropologico del lavoro impedisce di considerare con facilità l’economia un mezzo politico, magari perfino subalterno alle presunte mete democratiche dello Stato.
 
L’uomo, tuttavia, non lavora per vivere, e tanto meno vive per lavorare, perché nessuno trova il senso dell’esistenza in un estenuante fare impersonale. Semmai è la vita che si rivela storicamente eterna come lavoro temporaneo, ordinato, perfezionabile. Operare è essere personalmente in atto, sostanzialmente sovrabbondanti, costruttivamente legati alla generosità di dare e offrire agli altri il meglio di se stessi come bene comune.
Riformare oggi la società, nell’epoca del declino della modernità liquida, significa, dunque, cambiare l’organizzazione del lavoro, riscattando una libertà produttiva che implementi e faccia nascere nuove professioni e nuova ricchezza globale. Il lavoro, infatti, non è che ingegno soggettivo reso disponibile e acquisibile oggettivamente sul mercato. Perciò è sempre sbagliato strappare le rivendicazioni collettive dai meriti personali.
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