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Quale road map dopo Durban

Lo scorso 11 dicembre si è conclusa a Durban la 17sima Conferenza delle parti della convenzione quadro sui cambiamenti climatici e la settima Conferenza delle parti del Protocollo di Kyoto il cui obiettivo era decidere in che modo proseguire la lotta ai cambiamenti climatici dopo il 2012, anno in cui si concluderà il primo periodo di impegno del Protocollo di Kyoto.
Gli incontri preparatori svoltisi nel corso dell’anno avevano chiaramente dimostrato che sarebbe stato un negoziato difficile e che una conclusione positiva era tutt’altro che scontata. Tale sensazione è perdurata per quasi tutta la conferenza e solo nell’ultima parte della notte compresa tra sabato 10 e domenica 11 dicembre, a ben oltre 24 ore da quella che sarebbe dovuta essere la conclusione formale dei lavori, si è riusciti a convergere su un risultato che, sebbene non possa essere definito un successo, sicuramente può essere valutato positivamente.
 
Il “pacchetto di Durban” si compone di quattro elementi. Il primo, è la decisione di pochi Paesi “like minded” (Eu, Norvegia, Croazia, Bielorussia, Ucraina, Svizzera, Islanda, Kazakhstan, Liechtenstein e Monaco) di assumere impegni di riduzione legalmente vincolanti nell’ambito di un secondo periodo di impegno del Protocollo di Kyoto la cui durata dovrà essere definita nel corso del 2012 (5 o 8 anni) e di trasformare entro il prossimo anno le “offerte di riduzioni” al momento sul “tavolo” (in linguaggio negoziale “pledges”) in obiettivi di riduzione legalmente vincolanti. Il “pledge” della Ue al 2020 riflette l’impegno assunto dal Consiglio europeo del 2007 (riduzione unilaterale delle emissioni di gas ad effetto serra del 20% rispetto ai livelli del 1990, da innalzare al 30% nel caso di raggiungimento di un accordo globale per il periodo post-2012 in cui gli altri Paesi industrializzati assumano impegni di riduzione confrontabili e i Paesi con economie emergenti contribuiscano adeguatamente secondo le proprie capacità e responsabilità).
 
Il secondo elemento è un set di decisioni per dare attuazione agli accordi di Cancún, con particolare riferimento alle regole per il monitoraggio, rendicontazione e verifica (Mrv), all’operatività del Comitato per l’adattamento, dello standing committee (il cui obiettivo è migliorare il coordinamento e razionalizzare il meccanismo finanziario della Convenzione, mobilitare risorse, effettuare il Mrv del supporto finanziario), del “Climate technology center and network” (il cui obiettivo è catalizzare le strutture e i centri di eccellenza in diversi settori tecnologici, fornendo una “piattaforma” comune che faciliti l’accesso alle tecnologie da parte dei Paesi in via di sviluppo).
Il terzo punto è la decisione che rende operativo il Green climate fund, che sebbene formalmente parte del set di decisioni per dare attuazione agli accordi di Cancún, ha assunto una rilevanza tale da essere considerato uno dei quattro elementi del “pacchetto di Durban”. Il Fondo sarà finanziato prevalentemente dai Paesi industrializzati con risorse dedicate in maniera bilanciata a mitigazione e adattamento e avrà un board composto da rappresentanti dei Paesi industrializzati e Paesi in via di sviluppo e un segretariato indipendente composto da esperti di varia provenienza, organizzato dalla Convenzione sui cambiamenti climatici e dalla Global environment facility (attuale entità operativa del meccanismo finanziario della Convenzione).
 
Il quarto punto raggiunto a Durban è la decisione che a partire dal prossimo anno si avvii un processo negoziale per sviluppare un nuovo Protocollo o uno strumento vincolante (richiesta della Ue e di Aosis) o un risultato avente una non meglio definita “forza giuridica” sotto la Convenzione (richiesta Usa, Cina e India) applicabile a tutte le parti della Convenzione. Tale processo si condurrà attraverso un “Ad hoc working group on the Durban platform for enhanced action” che dovrà chiudere i lavori nel 2015 (il cui scopo sembra quello di mantenere il momentum per qualche anno in attesa del cambio di amministrazione negli Usa).
Presi singolarmente, i quattro elementi appaiono piuttosto modesti: infatti abbiamo un Kyoto “formato ridotto”, che necessita oltretutto di ulteriori negoziazioni per la sua completa definizione, ratifica ed entrata in vigore; un ulteriore forum negoziale nell’ambito della Convenzione che almeno per il prossimo anno si aggiunga a quelli esistenti e un mandato negoziale per approdare a “qualcosa” la cui forma giuridica resta ancora da concordare e una serie di decisioni che attuino gli Accordi di Cancún.
 
Tuttavia nel suo insieme il pacchetto di decisioni da un lato apre la strada ad un processo che dovrebbe condurre al definitivo superamento della attuale divisione tra Paesi in via di sviluppo, esenti da impegni di riduzione, e Paesi industrializzati; dall’altro offre al settore privato un segnale – sebbene non privo di incertezze – in merito alla volontà dei governi di limitare le emissioni in futuro, dando così valore agli investimenti per la riduzione delle emissioni. In tal senso l’accordo offre ai Paesi industrializzati la possibilità di rilanciare con le grandi economie emergenti la piattaforma per lo sviluppo e la diffusione delle tecnologie e dei sistemi in grado di assicurare nello stesso tempo la crescita economica e la riduzione delle emissioni. La sfida della Ue nei prossimi due anni di negoziato è cogliere pienamente tale opportunità. Sappiamo già che il percorso non sarà semplice e che al momento il contesto politico rappresenta una seria difficoltà per il raggiungimento dell’obiettivo ultimo (si pensi alla recente dichiarazione del Canada di uscire dal Protocollo di Kyoto), tuttavia in uno scenario in evoluzione ora, al contrario di quindici giorni fa, disponiamo degli strumenti per cogliere i progressi.
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