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Fede, riforma e società

Fede. L’uso oggi di questa parola strana sembra richiamare all’istante tanti miraggi, invero un po’ fumosi, e mai niente che abbia a che vedere con la politica. La fede – si dice – è una questione religiosa, magica, di coscienza, interagisce con la credulità che è certamente un fenomeno di psicologia sociale, forse perfino di patologia collettiva, il quale perciò rimane ragionevolmente escluso dalla politica contemporanea.
 
L’ars magna nel governo della cosa pubblica, d’altronde, fa riferimento unicamente a due ambiti principali dello scibile umano, diversi tra loro ma difformi all’unisono dalla fede. Penso alla comunicazione, ossia alla gestione dell’immagine e della parola utile, dello slogan efficace. E, per altro verso, alla ben più profonda e compassata analisi e previsione dei problemi economici alla luce degli interessi accurati di banche e multinazionali finanziarie. Comunque si giudichi il nostro tempo, la fede sembra restare un miraggio individuale, uno spauracchio che resiste quasi incomprensibilmente al processo weberiano di razionalizzazione spasmodica dell’intero sociale, cui lavoriamo tutti, con fatica e senza saperlo, ogni giorno.
 
Eppure quello che affligge l’Europa è un deficit che si rivela sempre più sottile, quasi indecifrabile. Specialmente nella nostra nazione, che da sempre precorre i tempi, è la mancanza di un elemento costitutivo della partecipazione collettiva che indebolisce la rete relazionale della cittadinanza, spegnendo un motore decisivo nel garantire l’apertura reale della comunità al suo destino. È la fiducia in una determinazione di sé che faccia oltrepassare il visibile dentro un fine concreto e condiviso. E questo slancio fuori dall’involucro del presente è esattamente quanto esprime la fede politica di un popolo. Io non parlo qui della credenza nel trascendente, bensì della certezza che comunque vada sia possibile sempre cambiare il finale con la sola forza di una volontà eroica, dinamica, veloce, in grado di opporsi ad un ineluttabile e cieco conto alla rovescia.
 
Da ogni parte si parla di riforme, di riformismi e di riformisti. Bene. A rinnovare, però, non è mai lo scetticismo di chi tutto rifiuta e nulla approva, ma è la sicurezza incrollabile di chi spera senza sapere, di chi vede senza conoscere, di chi opta nel buio senza calcolo e convenienza.
L’Italia ha bisogno di riforme, e questo è sicuro. Ma esse non nascono da inesausti oracoli bizantini, bensì dal sapersi tuffare nel cuore della gente, muovendo dal proprio scoglio personale, sapendo che comunque sarà dolce naufragare con gli altri nel mare della storia. Il futuro della democrazia, in definitiva, riposa nella nostra fiducia, una risorsa rara che non si crea a tavolino. Una fede, per l’appunto, che fin dai tempi arcani Erodoto intravvedeva solo nelle civiltà che sopravvivono.
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