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Questione di élite. La ricetta francese

Purtroppo sembra che molti appartenenti alle classi dirigenti abbiano fatto proprio il paradosso di Oscar Wilde, secondo cui “se le classi inferiori non ci danno il buon esempio, cosa ci sono a fare?”.
Anche un grande sociologo “nasometrico” come Giuseppe de Rita, già nel 2009, nell’introduzione al Rapporto Censis aveva scritto che “non c’è più una vera élite”. Essere élite significa in primo luogo dare il buon esempio, assumere decisioni coerenti con i veri problemi del Paese, progettare il futuro. A casa nostra invece sembra che essere élite significhi sparare opinioni a getto continuo, legate solo al presente, se non all’istante, e senza alcun pensiero o azione proiettati verso il medio, e tanto meno verso il lungo periodo.
 
Ma proviamo a scomporre la questione delle classi dirigenti. Ci sono due mali che le caratterizzano, in qualunque settore operino: la gerontocrazia e la grave carenza di etica pubblica. Secondo l’indagine più accreditata in materia, condotta da Carlo Carboni, il 24,4% degli appartenenti alle élites è ultrasettantenne e il 34,4% ultrasessantenne. Un dato che si commenta da solo.
Quanto all’etica pubblica, non c’è solo una sorta di vuoto etico che caratterizza la nostra politica, ma l’impazzare della corruzione piccola e grande, più volte denunciato dalla stessa Corte dei conti, evidenzia che, se ci sono i corrotti nelle classi politiche e burocratiche, è anche perché ci sono i corruttori nelle classi economiche e imprenditoriali.
 
Ma veniamo ai singoli blocchi delle classi dirigenti. Pochi hanno colto il degrado negli ultimi dieci anni, di qualità oltre che di etica, delle classi burocratiche. Per esse la mazzata principale è arrivata agli inizi del decennio con l’introduzione del “sistema delle spoglie” anche nelle Amministrazioni centrali. Quale professionalità, quale senso dello Stato possono avere, al di là di singoli casi positivi, dirigenti pubblici di prima e addirittura di seconda fascia, direttamente nominati, in assenza di seri requisiti predefiniti, dai vertici politici dei ministeri? Eppure anche i politici più accorti, forse in attesa di nominare i loro dirigenti, quando anch’essi saranno al governo, si guardano bene dal porre la questione.
 
Quanto alle classi dirigenti economiche e imprenditoriali, pur in presenza di lodevoli eccezioni e di forme di rinnovamento della governance societaria in alcuni settori, in seno ad esse c’è anche un “circo” fatto di “acrobati” che di volta in volta leva o mette le tende, accampandosi in una serie infinita di consigli di amministrazione e, ovviamente, nominandosi vicendevolmente l’un l’altro.
Anche le élites universitarie sono tra le più vecchie e tra le più autoreferenziali e incontrollate del mondo.
 
Come lamentarsi poi se quelle decine di migliaia di giovani talenti (che dovrebbero essere il necessario ricambio delle classi dirigenti), nonostante tutto sbocciati negli ultimi anni, che trovano un “tappo gerontocratico” a tutti i livelli, sono fuggiti, o si accingono a fuggire, all’estero? Questa è sin qui la diagnosi.
Molto più raro è invece trovare i rimedi, le terapie idonee ad offrire al Paese quelle classi dirigenti adeguate che da ormai quarant’anni circa non è dato ritrovare. Ciò che distingue il caso italiano da quello di altri Paesi,
come, ad esempio, la Gran Bretagna, gli Stati Uniti o la Francia (che per altri aspetti è il Paese più simile al nostro) è che in essi esistono circuiti e vivai adeguati per la formazione delle élites, sostanzialmente inesistenti nel Paese dello Stivale, perché non basta certo una Bocconi o una Luiss per fare primavera.
 
Il caso francese potrebbe fungere da pesce pilota. Oltralpe è più che mai vivo il sistema di formazione post-laurea delle Grandes écoles, come l’École polytecnique e soprattutto l’École national d’administration (Ena). L’itinerario classico degli “enarchi” è quello di fare, ad esempio, il vicedirettore generale di un ministero, nella prima fase della carriera, poi il consigliere di Stato o della Corte dei conti, poi l’alto dirigente di una banca o di una grande impresa, privata o pubblica, e in vari casi dopo il ministro o il primo ministro, o anche il presidente della Repubblica. Tali élites francesi operano indifferentemente nel settore pubblico o nel settore privato, in diverse fasi della loro carriera professionale. Ma il punto è che gli enarchi (vuoi che votino a destra o a sinistra) sono accomunati da una sorta di idem sentire de repubblica, da un’etica pubblica condivisa, da un comune senso dello Stato. E, soprattutto, arrivano già a trentacinque o quarant’anni in posizioni di elevata responsabilità, in un Paese in cui il ricambio generazionale delle élites funziona.
 
Sarebbe poi così difficile mutuare il modello delle Grandes ecoles, a cominciare dall’Ena, nel nostro Paese? Forse sin qui gli ostacoli maggiori sono stati la scarsa lungimiranza delle classi politiche e un certo egoismo dei “gerontocrati”.
Mutuare il modello francese consentirebbe poi, finalmente, di creare armonia ed osmosi fra la sfera pubblica e la sfera privata, in un Paese in cui invece i singoli spezzoni delle élites sono rinchiusi nella loro capsula.
 
E qui viene il secondo punto della mia proposta: avviare uno svecchiamento e un serio ricambio ai vertici delle Amministrazioni e degli Enti pubblici, creando incentivi adeguati per attrarre nel settore pubblico alte professionalità provenienti dal management privato. Ma deve trattarsi anche di incentivi idonei a riportare nel cuore pulsante dello Stato professionisti di alta qualità e cervelli fuggiti all’estero, diffondendo nuovi talenti nel nostro dormiente corpaccione burocratico.
In tal modo, per un verso si ricostruirebbe un’etica pubblica condivisa, per altro verso si avvierebbe finalmente un vero ricambio delle classi dirigenti.
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