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Una democrazia finalmente aperta

Lavoro nella Pubblica amministrazione da un tempo sufficiente per essermi reso conto che non basta ripetere una cosa un numero elevato di volte per farla divenire realtà. I dirigenti pubblici sono relativamente rapidi ad adottare gli slogan del momento, ma modificare di conseguenza i comportamenti degli uffici e dei funzionari pubblici è tutt’altra cosa. Non fa eccezione il tema dell’open government: ossia l’idea di aprire l’amministrazione pubblica a contributi di privati cittadini sfruttando l’efficienza comunicativa del web. Almeno come concetto, l’open government non è del tutto ignoto all’agire della Pa italiana, che da tempo si pone obiettivi di “trasparenza”. Al di là della trasparenza, tuttavia, di cui si può discutere perché è un principio che può ricevere attuazione in tanti modi diversi, l’altro elemento costitutivo di un governo aperto è il dialogo vero e proprio con i cittadini, che richiede una radicale trasformazione della prassi, di cui non esistono che rari e marginali esempi in Italia.
 
Pur non considerandomi un esperto di questa materia, vengo da tempo chiamato ad esprimermi in pubblico sul tema in virtù dell’esperienza che ho maturato come responsabile di un progetto pubblico, che sperimenta forme di interazione finalizzata fra amministrazione e individui. Si tratta di Kublai, la piattaforma di progettazione collaborativa nelle industrie creative del ministero per lo Sviluppo economico.
Per via di Kublai e di altri tentativi di estenderne l’affascinante metodo ad altri ambiti di intervento, ho sperimentato dall’interno le difficoltà di introdurre metodi aperti e collaborativi nella Pubblica amministrazione. Vorrei quindi affrontare il tema dell’open government in Italia a partire dai problemi e dalle resistenze che fanno sì che, a fronte di un consenso crescente verso il principio, così poco di “open” venga in pratica realizzato. Sia ben chiaro che non intendo soffermarmi sugli ostacoli per diffondere pessimismo riguardo alle chances di fare politiche aperte in Italia, ma perché ritengo che individuare e capire meglio le ragioni, più o meno legittime, di queste resistenze, serva a superarle.
 
Il primo ben noto ostacolo è di tipo culturale. La quasi totalità dei dirigenti pubblici, per via dell’età, non è nativa digitale. Perciò in genere, pur sapendo usare il computer per molte sue funzionalità, sottostima fortemente le proprietà del lavoro in rete. Questi amministratori pubblici spesso non hanno preso consapevolezza dei grandi vantaggi che nell’era dei nuovi media possono derivare all’intervento pubblico dalle nuove modalità di comunicazione molti-a-molti. Non apprezzando i benefici potenziali in termini di abbattimento dei costi e di efficacia dinamica nel raccogliere e processare informazioni, non sono perciò in grado neanche di richiedere all’esterno i servizi che servono a porre in essere sistemi deliberativi o di servizio pubblico più aperti.
 
Un riflesso della scarsa comprensione di che cosa siano veramente, nell’era dei nuovi media, la trasparenza e l’apertura al pubblico delle politiche e di quali vantaggi possano arrecare, è rappresentato dalle categorie che l’amministrazione usa per parlarne. Nel discorso pubblico su questi temi, e nella distribuzione dei compiti all’interno degli enti, le nuove modalità open vengono collocate sotto la rubrica “comunicazione”. Sono gli uffici comunicazione dei grandi enti pubblici – quelli che progettano e realizzano i siti web ma che in genere non influenzano la decisione pubblica o il contenuto delle politiche – a cui si pensa di poter demandare la predisposizione di piattaforme collaborative. Nella visione tradizionale della Pa, la comunicazione è vista come il fluidificante, l’olio degli ingranaggi, che può consentire di migliorare la percezione che i cittadini hanno dell’operare dell’amministrazione, ma nulla più. Nella visione dell’open government, invece, le modalità con cui è disegnata l’interfaccia con il pubblico è un elemento di sostanza di cui devono occuparsi anche coloro che lavorano ai contenuti delle politiche, se si desidera che il contributo degli individui venga orientato nell’interesse della costruzione di politiche più valide e condivise.
 
A questa errata concezione è legato a sua volta un ulteriore errore. Gli strumenti di comunicazione e di dialogo con il pubblico che vengono creati per il dialogo con il pubblico sono spesso generalisti. Si basano insomma sull’ipotesi che i cittadini siano interessati ad interloquire con un’amministrazione senza volto, su temi amplissimi come sono le aree di competenza di Regioni o dicasteri, o senza una qualche guida che chiarisca quali sono le questioni controverse su cui l’amministrazione chiede l’opinione o il contributo esterno. Il lascito di questa vaghezza sono i molti siti pubblici che vengono presentati come piattaforme web 2.0, ma in cui il traffico è pressoché nullo perché gli utenti non sanno per cosa utilizzarle. La metafora di Facebook è fuorviante per la Pubblica amministrazione che, nell’approccio collaborativo, non dovrebbe ricercare una conversazione generalista tra innumerevoli utenti, ma piuttosto coltivare spazi di nicchia con cui dialogare con cittadini depositari di conoscenze utili delle questioni di proprio interesse. Per coinvolgere un pubblico interessato serve un chiaro tema di discussione, una sfida comune da proporre ad una platea alle cui competenze si è genuinamente interessati.
 
La creazione di autentici spazi di dialogo fra amministrazione e cittadini del web è poco congeniale allo stile di lavoro della maggioranza degli Enti pubblici. Alcune modalità di lavoro aperte confliggono con principi importanti dell’agire pubblico, come la parità di trattamento degli utenti, che hanno una profonda ragion d’essere. Sarebbe sbagliato chiedere allo Stato di buttare a mare questi principi, o sostenerne l’irrilevanza. Le modalità personalizzate e collaborative richiederanno una deroga eccezionale e limitata alle modalità operative ordinarie dell’amministrazione, quando questa acquisterà consapevolezza dei vantaggi, ad oggi ancora difficili da stimare appieno, che possono derivare dall’arruolare l’intelligenza collettiva alla soluzione dei problemi che si trova ad affrontare. Fra questi, c’è senz’altro la maggiore legittimità che acquistano decisioni pubbliche che vengono prese in maniera aperta e collaborativa.
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