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La nuova fase del capitalismo cinese

La Cina sta per compiere il suo ultimo grande balzo in avanti: parti del comparto manifatturiero si muovono verso la fascia alta della catena del valore e fuori dai confini. La sfida della Cina è ora una sfida globale. Le ragioni di questo sviluppo sono piuttosto facili da comprendere. I costi di produzione (salari, affitti commerciali, terra, capitale, ecc.) stanno crescendo rapidamente nelle province costiere cinesi, sede della maggior parte delle attività manifatturiere e di servizio e degli investimenti diretti esteri.
 
Soltanto dall’anno scorso, i salari minimi in nove delle dodici province costiere, inclusa Pechino, sono saliti in media del 21%. Contemporaneamente, il renminbi si sta rivalutando, rendendo più costosa la produzione domestica di beni e servizi per l’esportazione. Ciò va ad impattare soprattutto le attività ad alta intensità di lavoro (dalla produzione di giocattoli al data-entry), sia di filiali di gruppi stranieri (che coprono oltre la metà delle esportazioni cinesi), sia di aziende locali, che stanno perdendo competitività sui mercati internazionali.
 
Per mantenere la sua base orientata all’esportazione, la produzione deve spostarsi in alto lungo la catena del valore, verso prodotti più sofisticati. Per le multinazionali, ciò è possibile grazie alla rete integrata globale, che consente loro di organizzare una divisione del lavoro intra-gruppo. Ogni segmento di questa catena produttiva può essere delocalizzato là dove è più utile alla competitività dell’impresa. E si tratta di gruppi in grado di ricercare su tutto il pianeta la migliore destinazione di investimento. Anche le imprese cinesi devono rispondere a queste pressioni.
 
Sono in ciò aiutate dal rapido ampliarsi della base tecnologica e del know how della Cina. Ciò è avvenuto in parte grazie alla formazione offerta dalle filiali di gruppi stranieri. Ma soprattutto, ciò è dovuto al prolungato impegno del governo cinese a sostegno dell’educazione e della formazione professionale, dei trasferimenti tecnologici da imprese straniere a imprese nazionali e, in particolare, della creazione di capacità di ricerca e sviluppo. In poche parole, i produttori di beni e servizi mediamente sofisticati devono prepararsi, tanto nei Paesi sviluppati quanto in quelli emergenti, ad una crescente concorrenza proveniente dalla Cina.
 
Al tempo stesso, le attività ad alta intensità di lavoro della Cina si muoveranno sempre di più verso Paesi con costi del lavoro inferiori, incluso Bangladesh, India, Indonesia e il vicino Vietnam (dove le imprese cinesi hanno già stabilito circa 1.000 filiali), e alcuni Paesi africani. È un processo già in corso, incoraggiato fin dall’inizio dello scorso decennio dalla politica detta del Going global, programmata dal governo con l’obiettivo di incentivare gli investimenti diretti cinesi all’estero. I dati mostrano che nel 2008 gli investimenti diretti cinesi sono più che raddoppiati, dai 23 miliardi di dollari del 2007, a 52 miliardi, e sono cresciuti ancora nel 2009 (quando gli investimenti internazionali nel mondo crollarono del 50% a seguito della crisi economico-finanziaria occidentale), fino a raggiungere i 68 miliardi di dollari l’anno seguente.
 
Senza contare Hong Kong, ciò basta a fare della Cina il quinto maggiore esportatore di capitali nel 2010. Questo sviluppo crea nuove opportunità per altri Paesi emergenti, che potranno cogliere i benefici commerciali di un loro inserimento nella divisione internazionale del lavoro. Le agenzie di promozione degli investimenti di questi Paesi – invero, anche quelle di tutti i Paesi, inclusi quelli sviluppati – farebbero bene a indirizzare sempre maggiori attenzioni alle imprese cinesi per attrarle sul loro territorio: non soltanto ai grandi complessi di proprietà statale, ma anche al crescente numero di dinamiche medie e piccole imprese private che sono sorte in tutti i settori dell’economia.
 
Deve tuttavia essere considerato un aspetto, ovvero che la Cina ha una vasta regione interna assai meno sviluppata delle province marittime. Il governo sta compiendo grandi sforzi per integrare queste aree nell’ambito della sua “Strategia di sviluppo del grande occidente”, anche con una moderna infrastruttura, promuovendo educazione di alta qualità, sostenendo scienza e tecnologia (tutti fattori determinanti nella scelta di stabilire un’attività produttiva), e incoraggiando gli investimenti nell’area. Di conseguenza, le aziende presenti nella fascia costiera che devono spostare la loro produzione, e non sentono il bisogno di diversificare rispetto al mercato cinese, possono scegliere di delocalizzare all’interno della Cina piuttosto che all’estero.
 
Il modello è chiaro. Questo tipo di migrazione dell’attività manifatturiera dalle produzioni ad alta intensità di manodopera è già avvenuto in quelli che oggi sono i Paesi avanzati, dove i gruppi con sede in Europa, Giappone e Stati Uniti un tempo delocalizzarono la produzione verso quelli in via di sviluppo. In Asia, Hong Kong, Corea del Sud, Singapore e Taiwan sono stati i principali beneficiari di questo processo.
 
Quando i costi di produzione di beni e servizi labour-intensive sono diventati troppo elevati anche in questi Paesi, la produzione è stata spostata altrove. Questa dislocazione delle fabbriche è stata fin da allora accompagnata dall’offshoring dei servizi le cui componenti ad alta intensità di informazione sono diventate oggetto di scambi internazionali. I governi hanno bisogno di politiche che si adattino a questo cambiamento globale, aiutando le imprese nazionali ad adeguarsi alla perdita di alcune produzioni, stabilendo programmi di formazione, stimolando l’innovazione e mantenendo o creando un ambiente competitivo che incoraggi la “distruzione creativa”, al tempo stesso offrendo una rete di sicurezza sociale.
 
Corrispondentemente, i governi che attraggono gli investimenti di questo tipo devono mettere in campo politiche per beneficiare in massimo grado di queste delocalizzazioni, dando così impulso al proprio sviluppo economico.
 
© Project Syndicate 2011. Traduzione di Marco Andrea Ciaccia
 
Anteprima della rivista Formiche numero 68 – marzo 2012
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