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Il cibo degli altri

A causa della diminuzione della produzione agricola in alcune aree un certo numero di Paesi che dipendono dalle importazioni alimentari cercano di esternalizzare la propria produzione acquisendo il controllo di terreni agricoli in altri Stati. A questa motivazione è da associare un uso non alimentare del terreno, che vede la coltivazione di colture per la produzione di biocarburanti e di prodotti agricoli di base non alimentari necessari per il modello di industrializzazione di alcuni Paesi.
 
La partecipazione del settore privato sembra principalmente guidata da aspettative di rendimenti competitivi dell’agricoltura e della terra. In questo contesto la crisi economico/finanziaria del 2007 ha agito da detonatore: le terre coltivabili sono viste come una nuova opportunità per fare profitti, e le impennate dei prezzi agricoli hanno spinto alcuni governi a rendersi indipendenti dal mercato per quanto riguarda l’approvvigionamento di cibo. L’est asiatico e i Paesi del Golfo emergono come le principali fonti di investimenti: la dipendenza dalle importazioni di cibo e la disponibilità di grandi riserve ufficiali sono caratteristiche comuni.
 
Sudan, Etiopia, Madagascar e Mozambico sono tra i principali destinatari degli investimenti in Africa; ma si riscontrano percentuali significative anche in Pakistan, Kazakhstan, sud-est asiatico e in parti dell’Europa orientale. I Paesi destinatari offrono terra fertile, una qualche disponibilità di acqua, e un certo potenziale di crescita della produttività agricola. In alcuni Paesi in via di sviluppo l’investimento estero, più che come trasferimento finanziario è visto come portatore di sviluppo e come fornitore di prodotti alimentari per i mercati locali.
 
Per quanto riguarda le procedure burocratiche, la stipula del contratto parte da un accordo quadro che definisce le principali caratteristiche dell’intera operazione, e per mezzo del quale il governo ospite si impegna (in primis) a mettere il terreno a disposizione dell’investitore. Il passo successivo è l’ottenimento di una licenza d’investimento da parte del governo centrale, e quindi procedere all’individuazione del terreno adatto nell’area di destinazione (questo può comportare negoziati con i leader dei clan o gli anziani locali). Dopo che un contratto di leasing è stato firmato da un ufficio sub-nazionale per gli investimenti, la terra è trasferita all’investitore. La maggior parte dei piani di investimento su larga scala documentati sono basati su un unico modello di produzione: concentrare l’attività all’interno di un’unica piantagione gestita direttamente dall’investitore straniero per ottenere la massima efficienza.
 
I dispositivi per proteggere il patrimonio degli investitori rispondono alla natura di lungo termine degli investimenti e alla necessità di tutelarli nei confronti dello Stato ospitante; comprendono quindi clausole limitative per l’esproprio, clausole di limitazione e di arbitrato. C’è da considerare, però, che se non correttamente formulate, queste disposizioni possono limitare la capacità dello Stato ospitante di agire nel pubblico interesse. Per quanto riguarda la popolazione locale, invece, le disposizioni della legislazione nazionale in materia di difesa dei diritti di proprietà e di accesso alla contrattazione sono deboli e raramente applicati.
 
In ultima analisi, ma non per importanza, è da considerare l’evidente contraddizione esistente in molti Paesi beneficiari degli investimenti: molto spesso sono i Paesi in cui la popolazione non riesce a sfamarsi e che sono destinatari di aiuti internazionali (Cambogia, Filippine, Etiopia, Sudan, Birmania, per citarne alcuni), che cedono le proprie terre a investitori stranieri per produrre cibo che sarà però venduto all’estero.
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