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La guerra al climate change ha una nuova arma

Anteprima del numero di aprile di Formiche
 
Negli ultimi anni è decisamente cresciuto il livello di consapevolezza sul cambiamento climatico. Ormai nessuno mette più in discussione il fenomeno e le relative responsabilità umane. Ora bisogna però individuare e attuare in tempi rapidi le azioni efficaci per ridurre drasticamente le emissioni di gas serra. Su questo fronte la politica non sembra però dimostrare lo stesso senso di urgenza che caratterizza gli studiosi del clima, come è documentato dal fallimentare esito della Conferenza di Copenhagen nel 2009.
 
L’approccio top-down dimostra così di essere un motore insufficiente ad assicurare il cambiamento atteso ed è essenziale che sia accompagnato da una spinta generata dal basso. Situazione che in realtà Achim Steiner aveva già previsto nel 2007. Il direttore esecutivo dell’Unep, il programma ambientale delle Nazioni Unite, in occasione della presentazione del IV Rapporto Ipcc si era rivolto con forza ai giornalisti. L’invito era ad aumentare il livello dell’informazione sul cambiamento climatico perché solo in questo modo si poteva innescare quel percorso di consapevolezza nei cittadini che avrebbe portato a fare pressione verso le proprie rispettive classi politiche. Parole che però sembrano essere state troppo spesso inascoltate.
 
Ma in Inghilterra, per esempio, qualcosa si è mosso in quella direzione. Oltremanica è stato creato Stop climate chaos, contenitore di un centinaio di associazioni di varia estrazione che raccoglie indirettamente 11 milioni di iscritti, che è stato in grado di pressare prima Tony Blair e poi Gordon Brown tanto da portarli a intraprendere degli impegni nazionali unilaterali di riduzione delle emissioni di CO2.
 
E non è forse un caso che proprio nel 2007 in Inghilterra sia emersa la necessità di attribuire ai prodotti di uso comune la loro impronta climatica, o carbon footprint (Cfp), con l’intento di aiutare i consumatori a compiere delle scelte più consapevoli sulle conseguenze dei propri acquisti rispetto al cambiamento climatico. Così, nel tempo record di un anno, l’ente di normazione inglese Bsi ha predisposto la prima norma al mondo per la quantificazione della Cfp: la Pas 2050.
 
L’impronta climatica è un numero in grado di rappresentare l’impatto che un prodotto ha sul riscaldamento del pianeta e si esprime in emissioni di CO2 equivalente (CO2e). Ciò è possibile solo prendendo in considerazione tutte le fasi di vita del prodotto, da quelle legate all’estrazione delle materie prime necessarie alla sua realizzazione, alla produzione del bene, l’utilizzo e il suo fine vita. Si tratta di un’attività di una certa complessità attuata utilizzando una metodologia applicata già dagli anni ‘60 per la valutazione degli impatti ambientali di un prodotto, la Lca (Life cycle assessment o analisi del ciclo di vita).
 
In questi anni la Lca è stata utilizzata per valutare un ampio numero d’impatti ambientali, restando però spesso confinata all’ambito accademico o tra funzioni specializzate all’interno delle aziende più avanzate in campo ambientale. Settori che adesso guardano con un po’ di diffidenza alla diffusione della Cfp, perché temono che il tema del cambiamento climatico spazzi via l’attenzione rispetto ad altri impatti fondamentali come l’uso delle risorse o l’inquinamento delle acque. Non può certo essere così e si deve pertanto ricordare che la Cfp non è un attestato di eccellenza ambientale, che ci porterebbe altrimenti erroneamente a interpretare come più pulita la produzione di energia da nucleare (5,1-5,6 g CO2e per kWh), rispetto all’eolico (15 g CO2e per kWh).
 
D’altro canto il senso di urgenza per un intervento radicale sulle emissioni di gas serra giunge molto chiaro dal IV Rapporto Ipcc. I Paesi sviluppati devono tagliare le proprie emissioni del 25-40% entro il 2020 e di almeno l’80% entro il 2050, data entro cui le emissioni complessive del pianeta dovranno essere il 50% di quelle del 1990. In altre parole, bisogna agire subito e su tutti i fronti, incluso quello dei consumi visto il ruolo centrale attribuibile ai prodotti. Infatti, ben il 25% delle emissioni globali di CO2 è idealmente trasferito da un Paese all’altro attraverso la commercializzazione delle merci.
 
Questo perché quanto rilasciato nelle diverse fasi della produzione del bene è come se, dal punto di vista teorico, viaggiasse “incorporato” nel prodotto finito.
La Cfp è prima di tutto un potente strumento per aiutare i produttori ad aumentare la conoscenza sulle specifiche criticità che caratterizzano le diverse fasi del ciclo di vita dei loro prodotti. In alcuni casi potrebbe così emergere come i trasporti, siano essi legati alla movimentazione delle materie prime, dei semilavorati o del prodotto stesso, abbiano il maggiore peso relativo. La conseguenza naturale in questo caso potrebbe essere quella di spingere per la promozione di una filiera corta in cui valorizzare il mercato locale.
 
Per il cittadino è invece l’opportunità di creare una nuova consapevolezza sul significato dei propri consumi, senza cadere però nell’errore di voler trasformare la potente metodologia scientifica della Lca in un bilancino da orefice.
 
È auspicabile che la Cfp sia in grado di generare una nuova relazione produttore-consumatore, capace di favorire lo sviluppo di prodotti sempre più efficienti in termini di emissioni complessive di gas serra. Percorso possibile solo riservando una grande attenzione al tema della comunicazione che deve assicurare di riuscire a filtrare un messaggio tanto chiaro quanto affidabile. Per questa ragione il primo standard internazionale in fase di sviluppo (Iso 14067) sta riservando uno spazio centrale a tutte le possibili declinazioni della comunicazione della Cfp.
 
Intanto il mercato ha già iniziato a muoversi con grande rapidità e già oggi esistono, all’interno di numerosi schemi nazionali, parecchie migliaia di prodotti per cui è stata calcolata e comunicata la Cfp ai consumatori. Numeri destinati a crescere rapidamente con la pubblicazione, prevista entro la fine del 2012, della Iso 14067.
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