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Quando l’arte pop era cosa seria

I primi pionieri dell’arte pop erano persone serie. Sì, il britannico Richard Hamilton era ironico ma anche rigoroso quando aveva deciso di titolare la sua pittura “Omaggio alla Chrysler Corp”. Lontano da festeggiare quello che Warhol chiamava “le grandi cose moderne” l’arte pop degli anni ’50 e inizi degli anni ’60 guardava con sarcasmo quella nuova ondata di consumismo che stava per travolgere il mondo.
 
Lo svedese Claes Oldenburg fece sculture blande e cadute di oggetti quotidiani, che facevano capire che il nuovo era già usato. Mentre Warhol dipingeva scontri tra automobili, questi artisti pensavano alla vita moderna come una forma surreale ed inquietante.
 
Oggi però la percezione dell’arte pop è diversa. Quando è avvenuto il passaggio tra la posizione critica e la versione edulcorata con colori sintetici e brillo? È impossibile precisare il momento di passaggio tra la complessità e la leggerezza. Molto probabilmente quando sono entrati in gioco i soldi. Quando Warhol ha smesso di fare parte degli anni ’60 e quando Damien Hirst guadagnò il suo primo decimo di milione con una sola opera.
 
Certo è che l’arte pop non ha confini. Ne geografici ne culturali. Dallo scorso febbraio il Museo di Qatar presenta una mostra retrospettiva di Takashi Murakami, il guru della pop art, con la cura dell’italiano Massimiliano Gioni. Per molti, l’artista giapponese è un disegnatore, non un artista. Ma è vittorioso come i social network. C’è una tipologia di arte che è vendita. E il pregio di Murakami è che lo accetta senza veli.
 
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