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Il divorzio tra potere e politica

Se il dibattito sul modello di una società giusta ha perso gran parte del suo fervore e del suo slancio, è soprattutto per la mancanza di un soggetto credibile in grado di agire con la volontà e la capacità di portare avanti un tale progetto. Tutto nasce dal divorzio sempre più evidente tra il potere – la facoltà di porre in atto un progetto – e la politica – la capacità di decidere che cosa fare o non fare. In conseguenza della globalizzazione, queste due facoltà, congiunte per alcuni secoli nello Stato-nazione, hanno oggi due sedi diverse: per usare i termini di Manuel Castells, “lo spazio dei flussi” e quello “dei luoghi”. Il potere è trasmigrato in buona parte dallo Stato-nazione a uno spazio globale sopranazionale.

Mentre la politica è tuttora locale, relegata entro i confini della sovranità territoriale degli Stati. Siamo di fronte a due tipi di potere: da un lato il primo, libero e fluttuante, al di fuori di ogni guida o supervisione politica, e dall’altro quello degli organismi politici, limitati e legati al territorio, mortificati oltre tutto da un permanente deficit di potere. I primi, i “poteri forti”, hanno, come sospettiamo, le loro buone ragioni per non essere interessati né intenzionati riformare lo statu quo. Mentre i secondi sarebbero incapaci di intraprendere, e meno ancora di portare a buon fine una riforma, per quanto fortemente desiderata.

Nessuno degli organismi politici esistenti, ereditati dal passato e creati in origine al servizio di una società integrata a livello di Stato-nazione, avrebbe la capacità e le risorse necessarie per affrontare un compito di così grande portata e gravità. In molti Paesi, persino in quelli meglio attrezzati, i cittadini sono esposti giorno dopo giorno allo spettacolo poco edificante di governi che guardano ai mercati per ottenere il permesso di fare ciò che vorrebbero. Quando si tratta di negoziare sulla linea di confine tra ciò che è realistico e ciò che non lo è, oggi sono “i mercati” ad aver usurpato (non senza la connivenza, e magari il tacito o esplicito avallo e sostegno di governi inetti e sfortunati) il diritto alla prima e all’ultima parola. Ma il termine “mercati” sussume un coacervo di forze anonime, senza volto né indirizzo, che nessuno mai ha eletto né delegato a richiamarci all’ordine o a impedirci di combinare guai. E che nessuno è in grado di coartare, controllare e guidare.

A livello popolare si sta diffondendo l’impressione, peraltro ben fondata e sempre più condivisa dagli esperti, che oggi tanto i governi quanto i parlamenti eletti siano incapaci di far bene il loro lavoro. E neppure i partiti politici tradizionali sembrano all’altezza: è ben nota infatti la loro tendenza ad accantonare ogni poetica promessa elettorale nel momento stesso in cui i loro leader entrano in carica negli uffici ministeriali, e si trovano a confronto con la prosaica realtà delle forze evanescenti ma preponderanti del mercato e delle borse valori. Da qui la crisi di fiducia, che si approfondisce sempre più. L’era della fiducia nelle istituzioni degli Stati-nazione sta cedendo il passo a un’era di discredito di quelle stesse istituzioni, ormai prive di fiducia in se stesse, e di scetticismo dei cittadini, che non credono più nella capacità d’azione dei governi. L’Onu, un’istituzione sorta come reazione alla guerra scatenata dall’aggressione di alcuni Stati-nazione sovrani contro la sovranità di altri Stati-nazione, è l’istituzione che più si avvicina all’idea di un organismo politico globale. L’impegno a difendere a oltranza, con le unghie e con i denti, i princìpi del Trattato di Westfalia da cui nacquero gli Stati-nazione è scritto nella Carta delle Nazioni Unite. Il tipo di politica “internazionale” (leggi: inter-statale, inter-governativa, inter-ministeriale) che è tenuta a portare avanti, la sola che l’Onu sia autorizzata e in grado di promuovere e praticare, non può farci fare alcun passo in avanti sulla via di un’autentica politica globale; ma al contrario, costituirebbe un grandissimo ostacolo se mai si decidesse di avanzare su questa strada.

Vediamo ora la situazione dell’euro: l’assurdità di una moneta comune servita/sostenuta da diciassette ministri delle finanze, ciascuno dei quali è peraltro tenuto a rappresentare e difendere i diritti sovrani del proprio Paese. L’euro è condannato ad essere esposto alle vicende ondivaghe delle politiche locali, a loro volta soggette alle pressioni provenienti da due fonti distinte, del tutto eterogenee, non coordinate e quindi assai difficilmente conciliabili (l’elettorato entro i confini nazionali, e le istituzioni sopranazionali europee, troppo spesso condizionate ad agire in maniera contraddittoria): e questa è solo una delle molte manifestazioni di un duplice vincolo, paralizzante come una morsa: da un lato il fantasma del Trattato di Westfalia col suo principio di sovranità degli Stati, dall’altro la realtà della dipendenza a livello globale, o anche solo sopranazionale.

Per dirla in due parole: non abbiamo ancora l’equivalente, l’omologo globale delle istituzioni inventate, progettate e poste in essere dai nostri nonni e bisnonni a livello territoriale di Stato-nazione, per suggellare il matrimonio tra potere e politica: istituzioni nate per servire la coesione e il coordinamento di opinioni e interessi diffusi e garantire una loro adeguata rappresentanza, riflessa in una legislazione vincolante per tutti. Resta solo da chiedersi se questa sfida potrà essere raccolta, se questo compito potrà essere affrontato dalle istituzioni politiche esistenti, create dopo tutto per un livello assai diverso dell’integrazione umana – quello dello Stato nazione – al fine di proteggerlo da ogni possibile intrusione “dall’alto”. Tutto è iniziato – è il caso di ricordarlo – dai poteri monarchici dell’Europa cristiana, in lotta contro la pretesa dei Papi di controllare i loro territori…

Per alcuni secoli, l’assetto così ereditato era in relativa sintonia con le realtà di quel tempo: un tempo in cui potere e politica erano reciprocamente legati a livello degli Stati-nazione nascenti; il tempo della Nationalökonomie (economia nazionale) e della Ragione identificata con la raison d’état.

Oggi tutto questo è cambiato. La nostra interdipendenza è fin d’ora globale, mentre i nostri strumenti di espressione della volontà e di azione collettiva rimangono locali, e si oppongono caparbiamente a ogni estensione, limitazione o interferenza. Il divario tra la portata dell’interdipendenza e la sfera d’azione delle istituzioni responsabili è già un abisso, che si approfondisce e si allarga ogni giorno di più. A mio parere, il superamento di quest’abisso rappresenta la grande sfida, il meta-challenge del nostro tempo. Questa dovrebbe essere la prima preoccupazione per i cittadini del XXI secolo. Se questa sfida verrà raccolta adeguatamente, si potranno affrontare anche le problematiche minori ma ineludibili che ne derivano con la necessaria efficacia e serietà.

Zygmunt Bauman Repubblica 8 giugno via micromegaonline
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