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Fiori di carta

Innanzitutto il paese del Belgio, vicino ad Anversa, dove ha inizio la storia di Teresa Senzasogni e dove avviene il suo incontro con un Van Gogh, vagabondo e disperato alla ricerca di un’identità che fatica a emergere, è Giallo, letteralmente Giallo, come attesta il toponimo – Gheel – e conferma una filastrocca che sta in epigrafe e si ripete un po’ diversa in chiusura.
 
Di tutti i colori il giallo è quello più inequivocabilmente vangoghiano, è dunque plausibile che negli undici mesi tra il 1879-80, durante i quali il giovane Vincent – aveva ventisette anni – senza lasciare tracce insegue il proprio destino, sia passato per Gheel, diventando proprio là il pittore che fu, e infatti al paese fa cenno in qualche lettera al fratello Theo degli anni successivi.
 
Gheel però è un paese straordinario non solo per il nome, ma di più perché lì cercò di nascondersi e di salvarsi Santa Dimfna, la ragazza irlandese che il padre prima desiderò come sposa e poi, accecato da folle amore, inseguì e uccise, spietato, trasformandola nella protettrice dei matti, i quali a Gheel già nel Medioevo vivevano liberi, accolti nelle famiglie.
 
Teresa è figlia di una matta, internata bambina alla Salpêtrière e finita poi a Gheel, dove era morta partorendo, e quindi è considerata un po’ matta anche lei, perché è orfana e visionaria al punto di predire il futuro, e per di più conviene denunciarla come malata per avere il sussidio di Stato.
 
Accade, dunque, che i destini di Teresa e Vincent si incrocino a Gheel e che sia la ragazza a regalare tavolozza e colori all’uomo che sinora aveva soltanto disegnato con la matita e a spingerlo a colorare il paesaggio, perché «senza i colori il mondo era rimasto fuori».
 
Quando, una decina d’anni dopo, Teresa decide di scrivere una lettera all’amico intanto perduto, la vita di entrambi ha consumato il loro destino e un nuovo incontro li trova rinchiusi in un ospedale psichiatrico, a Saint Rémy: «Abbiamo perso, signor Van Gogh», confessa la donna, quando lui non la riconosce e a lei non resta che inseguire i ricordi per affidarli alle parole, che «suonano vaghe, imprecise», perché faticano a contenere le cose grandi che accadono, «ci confinano, sono più o meno quello che voglio dire, ma non esattamente», «sono quasi quello che sento davvero» e, soprattutto, «fanno male». Come d’altronde i ricordi, che «fanno molto male… molto, molto male».
 
Ma che cosa mai può davvero far male, dopo anni di reclusione e violenza, di un vero e proprio annullamento dell’individuo? «Resisteremo», prova a dire Teresa, prima di arrendersi, e la lettera, la lettera che indirizza a Van Gogh riepilogando i brandelli di una storia che sarebbe stata possibile, è l’estrema prova di fiducia e di speranza prima di arrendersi definitivamente.
 
Giovanni Montanaro ha prestato le sue parole a Teresa perché la letteratura proprio in questo consiste, nel dar voce a chi intanto l’ha perduta per sempre, esattamente come la pittura restituisce i colori al mondo e alla vita.
 
«C’è tutto questo dolore senza senso, questo dolore che ci annienta. Ma c’è anche tutta questa speranza, che ha ancora meno senso. Ci siamo noi, poveri miracoli mancati».
 
Tutti i colori del mondo è una vera e propria apologia dell’arte in un tempo che distrattamente l’ha dimenticata, della sua forza dirompente che va ben al di là della bellezza, della rassicurazione e dell’armonia, «perché in fondo è la bruttezza che ha sempre salvato il mondo», ed è questa la fondamentale lezione che insegnano l’emarginazione, il dolore, la malattia; perché «sono una forza i colori, una potenza», una forza salvifica e resuscitatrice, che evoca il mondo, la vita, e ce la restituisce anche quando ci crediamo perduti.
 
Più in là Montanaro non va né vuole andare: i perdenti aspettano solo la morte e «nessuno guarisce», perché «i medici non sanno bene cosa abbiamo». Alla fine anche i colori svaniscono, si assottigliano, si riducono e si confondono: «Giallo, Giallo, non lo so se mai più ti rivedrò. Forse un giorno tornerò. Forse invece no».
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