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Sulle rovine dei dogmi

Pensare oggi la cultura riformista impone, insieme, uno sguardo coraggioso sul passato e una visione audace del futuro. Si tratta, infatti, di una parabola filosofica politica di tipo europeo che ha una tradizione non decennale ma plurisecolare, ed è maturata e cresciuta nel nostro Paese alla fine dell’Ottocento. Precisamente nel 1891 fu Filippo Turati a licenziare lucidamente l’ideale di fondo che ispirava l’allora nascente Partito socialista italiano nella contraddizione che divide senza fine i popoli in conservatori e riformatori, un’eterna cesura che è arrivata immutata ai nostri giorni. Le sue parole furono nette, a tratti perfino profetiche: “Una parte della democrazia sociale diverrà democrazia socialista o liberale – egli diceva, anticipando Carlo Rosselli – mentre quella che rifiuterà la desinenza diverrà democrazia conservatrice”.
 
Ebbene, guardando attentamente la complessa evoluzione storica del secondo Dopoguerra italiano, è impossibile non constatare l’emergere, il consolidarsi e l’imporsi di un gigantesco blocco conservatore, che è andato via via articolando e diffondendo il suo consenso attraverso l’egemonia politica e culturale di due grandi partiti di massa: il Partito comunista – partito maggioritario della sinistra, ma non riassuntivo di tutta la sinistra – e la Democrazia cristiana – partito dei cattolici o della nazione, come lo ha definito plasticamente Agostino Giovagnoli, ma non di tutti i cattolici. Il punto di forza della loro supremazia è stato aver siglato, nel segno dell’antifascismo, il Patto costituzionale che ha dato vita nel 1948 alla Prima repubblica, alla Repubblica parlamentare, attivando e rendendo possibile un bipolarismo imperfetto ma rigido, e una nascosta e subdola alleanza tra l’immutabile maggioranza di governo e l’insostituibile minoranza di opposizione.
 
Si è creato un sistema di potere micidiale, sorretto dalla mitizzazione ideologica della Costituzione e corredato dalla spartizione bipartitica degli interessi. E si è prodotta, inoltre, da parte delle forze progressiste e moderate una sostanziale estromissione politica e culturale del riformismo, all’insegna della difesa e salvaguardia incondizionata del super parlamentarismo. Basta riprendere i principali scritti di Franco Rodano e Giuseppe Dossetti per ritrovare fedelmente le linee-guida di quella che possiamo definire, col senno di poi, la più imponente sospensione democratica del riformismo, consumata all’interno di una complicità ideologica inflessibile che ha vincolato la legittimità del sistema ad influenti oligarchie istituzionali.
 
La Costituzione italiana, sebbene contenga nella prima parte valori che sono senza dubbio fondamentali, è diventata inevitabilmente il decalogo dell’immobilismo nazionale, come evidenzia l’obiettivo pedinato incautamente da Enrico Berlinguer e Aldo Moro negli anni ‘70 con il Compromesso storico.
Un’alternativa riformista a quell’alleanza reazionaria d’ispirazione dossettiana è affiorata, non a caso, faticosamente e solo dopo il breve e contraddittorio esperimento di Amintore Fanfani, l’unico vero capitolo autenticamente riformatore del centrosinistra, non a caso definito programmatico, prima con la fine della subalternità di Nenni al Pci, e poi, negli anni ‘80, con l’indipendente leadership autonomista di Bettino Craxi. Nenni, però, non aveva fatto altro che spostare la subalternità dei socialisti dalla soggezione all’opposizione a quella verso la maggioranza, spegnendo così nel centrosinistra organico, guidato da Moro negli anni ‘60, ogni spinta riformatrice.
 
Craxi, viceversa, ha subito invertito la marcia e ha finalmente svelato con nitidezza la pervicacia della linea bianco-rossa, scardinando i robusti equilibri politici che vi erano annidati e scalzando gli enormi interessi corporativi che la logica consociativa assicurava. Egli ha realizzato questo progetto, scommettendo sulla governabilità, ossia su un’alleanza dei socialisti con la Dc, in decisa alternativa al comunismo, spalleggiato dalla corrente di Fanfani, sempre più divergente e distante dalla sinistra. Muovendo dalla felice intuizione che essere socialisti e essere cattolici sia possibile coerentemente solo nella libertà, seppellendo il cattocomunismo e promuovendo un’economia politica di mercato, in Craxi è maturata, ben presto, l’idea di una grande riforma istituzionale che frantumasse quel potere dominante e aprisse, in tal modo, uno spazio adeguato alle riforme.
 
Nella fase iniziale della sua esperienza di governo, precisamente al congresso di Verona del 1984, Craxi espose con audace lungimiranza la sua linea politica, opponendola agli interessi consolidati: “Il riformismo – egli disse – si contrappone ad ogni sorta di conservatorismo del privilegio e del moderno autoritarismo e ad ogni sorta di rivoluzionarismo, essendo radicalmente diverso da ogni dottrina comunista”. Le sue parole erano la traduzione nazionale del vincente distanziamento della sinistra europea dal marxismo ortodosso che in Germania aveva trovato il suo sbocco naturale nel congresso di Bad Godesberg del 1959, un approdo che appare in Italia ancora lontano cinquant’anni dopo. Lì si diceva, per l’appunto, che “i comunisti hanno falsificato il patrimonio di pensiero socialista per erigere la dittatura del loro partito”.
 
E il riformismo da noi, non a caso, è finito tragicamente, come ben sappiamo, strozzato sotto la morsa autoritaria del moralismo demagogico. Con la fine della Guerra fredda, infatti, i comunisti italiani, invece di optare per l’unità socialista e la sovranità popolare, hanno preferito comprimere la democrazia con l’arma affilata del giustizialismo e del legalismo. Anche per questo, molto più di ieri, il riformismo si presenta oggi come l’unico approccio democratico possibile al cambiamento, che propenda per la governabilità del Paese, evitando la violenza irrazionale dell’antipolitica, un percorso pratico eretto attorno al valore centrale della persona umana, della sua libertà, della sua dignità, della sua autonomia e del suo desiderio sociale di felicità. Il riformismo, difatti, è pluralista per definizione, e non solo è perfettamente compatibile con qualsiasi credo religioso e laico, ma propone una visione dinamica e multiculturale della vita che è perfettamente adeguata all’attuale globalizzazione, respingendo degli altrui patrimoni di conoscenze unicamente la soppressione violenta della libertà e dei diritti umani fondamentali. Come non vedere nel capitolo di Mani pulite, che ha investito tutti i partiti moderati e riformisti, l’esatta espressione del contrario, ossia di quanto separa filosoficamente il massimalismo violento e rivoluzionario dal gradualismo democratico e moderato?
 
Con l’esperienza del governo Monti e con la fine della transitoria e mai nata Seconda repubblica, dominata dalla feroce lotta tra giustizialismo e populismo, ecco che l’Italia reclama ora con urgenza una nuova classe politica giovane, competente, intelligente e attiva che sappia tenere insieme l’autodeterminazione della società e la capacità di governo, rappresentando a pieno i bisogni e le istanze di innovazione reclamate dal territorio. L’Italia merita, in definitiva, una possibilità riformista, mai avuta finora e mai tanto necessaria. Ed è giunto il momento di offrirla al Paese!
Democrazia senza ulteriori aggettivi, come ha spiegato lucidamente Gianni Baget Bozzo nel suo ultimo libro testamento su Giuseppe Dossetti, sapendo che “il conflitto tra Costituzione e democrazia è la vera divisione sovrastante le forze politiche”. Democrazia che significa vincere l’infausto dogmatismo del passato e del presente, con una visione internazionale aperta al nuovo che rianimi nel popolo sovrano l’originario e immortale “spirito di cambiamento”. Democrazia, dunque, che è volontà di trasformazione, di ampliamento dello spazio pubblico e della cittadinanza. Soltanto, infatti, uno Stato che sa riformare se stesso merita una democrazia che governa, che rilanci e promuova l’economia industriale, la centralità dei ceti produttivi e sia in grado di interpretare così la politica come azione allacciata al tempo e proiettata al futuro. La crisi attuale dell’Italia, in definitiva, è una crisi essenzialmente culturale, e deriva dalla mancanza di un’opzione riformista, nonostante la rilevanza qualitativa e l’originalità specifica della sua storia. Un riformismo che noi siamo sicuri di saper recuperare e di poter proporre e diffondere in tutto il Paese. Una politica che sia, innanzitutto, stile di vita e scelta di pensiero.
 
L’atteggiamento culturale dei riformisti appartiene, non a caso, orgogliosamente a un’illustre tradizione filosofica che è erede di Saint-Simon, Proudhon, Filippo Turati, Anna Kulishoff, Carlo Rosselli e di tutto il socialismo liberale delle origini, ma anche della tradizione del riformismo liberale, incarnato da Alexis de Tocqueville, Giovanni Giolitti, Alberto Beneduce e Francesco Saverio Nitti. Si tratta di riferimenti che Alcide De Gasperi non rifiutava di considerare suoi, perché appartengono alla grande tradizione del liberalismo solidale europeo.
 
È sufficiente rileggere le parole con cui Craxi sintetizzò la sua politica al congresso di Bari del 1991 per comprendere la convergenza non strategica e partitica ma filosofica e culturale del riformismo: “La difesa dei diritti umani, la difesa dei diritti dei popoli, la riduzione delle diseguaglianze, l’idea di un’economia libera ma volta a fini sociali, il valore-libertà, il valore-solidarietà, sono stati e restano la divisa di tante battaglie, di tante nostre battaglie”.
Tutto ciò ha pieno significato oggi. Non solo, infatti, non è possibile vita civile senza libertà, ma la piena fiducia nelle potenzialità individuali è l’unica risorsa feconda per il futuro dell’Italia.
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