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Urge credibilità politica

Confesso di non avere mai capito gli econometrici. Che, con aria compunta e melliflua, vantano certezze di successi strategici in campo internazionale innalzando sempre il vessillo del dio Denaro che dovrebbe soddisfare bisogni popolari e banchieri. Non mi esalto, perciò, anzi non riesco ad essere persuaso da quei tecnici, nostrani e forestieri, i quali giurano che siano bastate alcune ore di (poco) animate discussioni di alcuni ottimati altolocati a Bruxelles per far uscire il mondo dalla crisi economica, mentre nessuno giura, sul proprio onore, che dai prossimi giorni l’angustia che ci domina da mesi sarà debellata da qualche macchinazione fiscale, suppletiva a quelle abbondanti escogitate da una decina di mesi: da quando, cioè, si cominciò ad esercitare, su ciò che resta dei partiti politici, un’ossessiva e concentrica pressione perché si procedesse ad una dolce morte del IV governo Berlusconi e si desse incondizionata fiducia a dei professori, onesti e ben preparati in tecniche economiche, anche a costo di una «provvisoria», volontaria rinuncia alla sovranità democratica: sul piano interno e nei rapporti con la sovrastante Europa monetaria, che di politico (secondo il pensiero dei padri fondatori) non ha proprio nulla.
 
Parlare chiaramente, da qualcuno viene definito disfattismo. È un’opinione legittima. Ma il disfattismo si manifesta concretamente quando, da contrari integrali ad indirizzi imperanti, si respingono aprioristicamente le idee prevalenti fra i popoli. Così, però, non è. Giacché i critici, come noi, si preoccupano di non contribuire ad arrendersi allo strapotere degli econometrici, che non rispondono a nessuno dei propri errori, anzi spesso negano d’averne commessi, si sentono sempre superiori quando alcuni giornaloni che li strumentalizzano non sono né europeisti, né euroscettici ma solo speculatori dei loro personali interessi cellofanati ma non per questo non evidenti.
 
Se cercassimo, un po’ tutti, di farci ingannare meno dalle apparenze salvifiche e dalle difficoltà reali, e cominciassimo a chiederci se democrazia è quella che , in Europa, riduce la politica a intrattenimenti diplomatici privi di animus operandi e in Italia, si tende a preferire un minimalismo formale (e sempre meno condiviso) ad una demarcazione di politiche e di campo per accertare chi rappresenta chi, forse i cittadini capirebbero dove si vuole andare a cozzare.
Sono già in troppi a puntare su alleanze strette (un tempo respinte come diaboliche) per aspirazioni personali alle maggiori cariche dello Stato. È umano tendere ad un vertice di potere, e a nessuno è consentito alzare un indice accusatorio verso alcuno dei pretendenti, qualcuno dei quali non ancora uscito allo scoperto. Ma le manovrette presunte «politiche» sono d’un conio diverso dalla politica e conducono a prendere abbagli ingannevoli.
 
Questo modo di procedere non aggiunge alcunché di positivo all’econometrismo, raggelante per la sua mediocrità. E semina ulteriore scompiglio nelle sempre più esigue schiere di fedeli della democrazia partecipata e viva: che si misura sulle differenze e sulle capacità aggregative non di certo con i diktat unanimistici e, allo stesso tempo, escludenti chi la pensi diversamente dai contendenti. Non c’è logica, e neppure coerenza in troppe dichiarazioni insulse e sistematicamente contraddette dalla realtà. Per costruire un consenso di una maggioranza democratica, occorre ben altro: anzitutto evitando di rosicare qualche decimo di punto all’interno del quaranta per cento che si reca alle urne e operando per trasformare in voti positivi quelle quote reali di astensionismo che rasentano il cinquanta per cento degli elettori. È lì la chiave per tentare di superare la crisi di credibilità democratica, non molto diversa dalle non rassicuranti oscillazioni dei mercati.

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