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Anche l’intelligence sarà in comune?

Il vertice Nato di Chicago ha ufficializzato il lancio della nuova dottrina della Smart defence, o “difesa intelligente”. Intelligente perché dovrà adeguarsi alle mutate minacce che interessano l’Alleanza, ma soprattutto perché dovrà ottimizzare risorse e concetti d’impiego in un momento in cui la crisi economica mondiale impone un drastico ripensamento dello strumento militare e un ancor più drastico ridimensionamento dei suoi bilanci.
 
Smart, quindi, soprattutto perché dovrà cercare di rispondere alle tante incognite di sicurezza dell’Alleanza attraverso un intelligente percorso di tagli, risparmi, riduzioni, sinergie e collaborazioni, permettendo la continuità dell’Alleanza e al tempo stesso garantendone l’operatività.
 
La parola d’ordine sarà quindi d’ora in poi collaborazione, condividendo quanto più possibile esperienze e tecnologie, nell’ottica di rendere più omogenea la capacità della Nato anche in costanza di un profondo gap di spesa tra gli Stati Uniti e gli alleati.
 
Non farà quindi eccezione il fronte dell’intelligence, tradizionalmente un ambito assai scettico e ritroso nei confronti delle sinergie, spesso anche con le agenzie “sorelle” del proprio sistema nazionale.
 
La condivisione di informazioni, archivi e capacità dovrà diventare una realtà nella relazione tra le varie agenzie di intelligence impegnate nel concorso alle missioni dell’Alleanza, al fine di trasformare l’insieme delle singole capacità nazionali in un’unica straordinariamente forte capacità di raccolta e valutazione delle informazioni necessarie al conseguimento degli obiettivi sul terreno.
 
Un’intenzione lodevole, ma che sembra peccare fortemente di realismo, ignorando – o forse solo trascurando – la tradizionale ritrosia delle agenzie a qualsiasi forma di collaborazione e soprattutto condivisione con altre strutture di qualsiasi elemento informativo, tecnologico o metodologico.
 
Se le agenzie dovranno collaborare in modo reale, quindi, sarà necessario adottare non tanto una mera manifestazione di intenti, ma al contrario una reale trasformazione operativa nella modalità di concepire il lavoro.
 
Questo processo, necessariamente, potrà avere qualche speranza di reale successo solo sui tempi lunghi, investendo grandi capacità organizzative ed esercitando dall’alto forti dosi d’autorità sovranazionale. Condizioni in assenza delle quali, la collaborazione sul piano dell’intelligence rischia di restare sulla carta come una meravigliosa quanto ingenua proposta formulata da burocrati del tutto estranei alla realtà del settore.
 
Ciò detto, non mancano certo gli ambiti nei quali questa sinergia sarebbe davvero necessaria. In primo luogo c’è la questione del progetto per la copertura antimissile comune, che dovrà assicurare la sicurezza dell’Alleanza da potenziali attacchi balistici da Paesi potenzialmente ostili e dotati di sistemi missilistici in grado di colpire a lunga distanza. Ci si riferisce chiaramente a Paesi come l’Iran e la Corea del Nord, ma anche potenzialmente al Pakistan e alla Cina.
 
C’è poi il fronte della sicurezza energetica, dove le agenzie di intelligence dell’Alleanza saranno sempre più spesso chiamate a valutare la portata dei rischi connessi alla definizione delle nuove linee di trasporto, ma anche la pianificazione delle aree di intervento per la futura attività di produzione. Insieme di elementi reso peraltro particolarmente critico dopo l’imbarazzante performance europea nel recente conflitto libico.
 
C’è poi l’Ags (Allied ground surveillance), un nuovo sistema di controllo satellitare sviluppato da 13 Paesi dell’Alleanza, tra cui l’Italia, che si doteranno di cinque velivoli senza pilota il cui scopo è quello di volare per lunghi periodi ad altezze elevate, trasmettendo informazioni dettagliatissime del suolo su vaste aree. Uno strumento di fondamentale importanza per la gestione in sicurezza delle operazioni sul terreno, la cui protezione da occhi indiscreti è una priorità assoluta per la Nato.
 
Le agenzie di intelligence dell’Alleanza saranno poi chiamate a collaborare attivamente sul piano della lotta alla proliferazione nucleare, questione che pone inquietanti interrogativi e che potrebbe determinare l’adozione preventiva dell’uso della forza per mitigare il rischio di diffusione in aree ad alta instabilità o conclamata pericolosità. Non diminuirà l’impegno nella lotta al terrorismo, che costituisce ancor oggi una delle priorità della Nato, e che assorbe gran parte della sua capacità operativa sul terreno sia in operazioni tradizionali, come in Afghanistan, sia in operazioni speciali quali quelle nel Corno d’Africa. Regione dove peraltro si inserisce un’ulteriore linea d’azione dell’Alleanza, impegnata nella lotta alla pirateria attraverso il pattugliamento navale e saltuariamente l’intervento in profondità a terra per neutralizzare le centrali organizzative e logistiche delle organizzazioni criminali.
 
Più ad ampio raggio, infine, la comunità alleata dovrà fronteggiare in modo coeso e fattivo la cyber-sicurezza, per mitigare la minaccia derivante dalle sempre più aggressive e devastanti capacità offensive delle reti di aggressione informatica. Soprattutto la Cina sembra aver raggiunto in questo campo una capacità notevole, dispiegandola sistematicamente alla ricerca di segreti industriali e commerciali.
 
La nuova auspicata collaborazione in termini di intelligence dovrebbe quindi chiaramente essere impostata su una forte interoperabilità, e sarà il piano tecnologico il vero terreno su cui si verificherà la capacità di questo progetto.
 
L’esperienza del Majiic (Multi-intelligence all-source joint Isr interoperability coalition) e del Majiic 2 ha dato ottimi frutti in Afghanistan, e questo potrebbe contribuire ad agevolare una futura maggiore collaborazione partendo dal lato operativo dell’intelligence. Con l’auspicio che anche i vertici delle strutture nazionali comprendano quanto siano cambiati i tempi (o soprattutto venute meno le risorse), e decidano di collaborare attivamente.
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