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Fiat, liberalismo decantato e statalismo praticato

Cornuti e pure mazziati? Si spera di no. Però il rischio s’intravvede. Il capo azienda della Fiat, Sergio Marchionne, non ha esitato in questi mesi a lamentarsi (spesso giustamente) delle lentezze burocratiche italiane, della normativa sul lavoro e sui contratti obsoleta e vincolistica, del sindacalismo fannullone e antagonista, con toni tra la spocchia e l’arroganza. Ora però, se ne parlerà o meno nell’incontro di oggi tra i vertici del Lingotto e i rappresentanti del governo, si scorge la possibilità che il detestato (da Marchionne) Stato italiano debba in qualche modo elargire sotto varia forma qualche euro per coprire, chissà, altri ammortizzatori sociali e casse integrazioni per gli stabilimenti del Lingotto che sono asfittici.
 
Ma queste provvidenze, poi, dovranno essere pur calcolate e sommate con i soldi statali ricevuti sotto varia forma dalla Fiat. Materia buona per il sociologo Luca Germano che a fine 2009 curò per le edizioni del Mulino un saggio dal titolo “Governo e grandi imprese. La Fiat da azienda protetta a global player”.
Il saggio voleva osservare come nei maggiori stati europei, nel corso degli ultimi trent’anni, sono cambiati i rapporti tra i “campioni nazionali” dell’auto e i poteri pubblici. Ovviamente il presupposto, scriveva Germano dell’Università di Trieste e di Roma Tre, “è che gli Stati tendono a favorire i propri campioni nazionali in diversi modi”.
 
Ma poi c’è stata la globalizzazione e i protezionismi sono stati messi alla prova. In tutti gli stati tranne che in Italia, dove la Fiat ha continuato a godere di un sostegno statale che non ha avuto paragoni: “Mentre in Germania e Regno Unito hanno prevalso logiche di mercato – secondo Germano – Francia e Italia hanno mantenuto la tradizionale attitudine protettiva nei confronti delle loro imprese”. Con una differenza: in Francia con politiche industriali “le imprese automobilistiche sono state aiutate a collocarsi sul mercato globale”, in Italia “si è continuato a perseguire politiche di sovvenzione nel solco di una tradizione all’intervento erogatorio”.
 
I numeri? Dal 1977 al 1987 Fiat e Alfa Romeo hanno incamerato un ammontare di aiuti statali (6,7 miliardi di ecu) largamente superiori a quelli incassati da Renault (4,4 miliardi), Volkswagen (1,5 miliardi), gruppo Psa (1,1 miliardi), General Motors (1,1 miliardi) e Ford (655 milioni).
Una tendenza che è proseguita anche negli anni successivi, tra accordi di programma (come quello che favorì la costruzione dello stabilimento a Melfi), finanziamenti per ricerca, formazione e sviluppo (erogazioni dai mille rivoli) e ripetute casse integrazioni (di cui alla fine si è perso il conto, riconosce di fatto la ricerca, per la difficoltà di reperire e ricostruire dati precisi).
 
Gli effetti di questo interventismo? La Fiat invece di essere stimolata a espandersi e internazionalizzarsi si è fossilizzata nel mercato italiano. “Il riflesso di ciò – scriveva Germano citando dati di Roland Berger degli inizi degli anni Duemila – sta nella perdita di rilevanza italiana: mentre la Francia è stata capace di aumentare del 40 per cento i suoi volumi di produzione, la Germania ha accresciuto i suoi del 13 per cento, in Italia il volume di produzione è diminuito del 15 per cento (solo negli ultimi anni del decennio 2000 la situazione è mutata)”.
Numeri su cui meditare.
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