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Diego & Sergio, se questa è l’élite del capitale…

Sergio Marchionne e Diego Della Valle
Cosa c’è dietro la lite da comari tra Diego Della Valle e Sergio Marchionne? C’è davvero lo scontro tra due modelli di capitalismo, come scrive Roberto Mania sulla Repubblica di oggi, cioè quello che fa del made in Italy il suo punto di forza (mr. Tod’s) o quello che, invece, lo sopporta come una palla al piede (il cosmopolita dal maglioncino nero)? Oppure la lite copre una nuova offensiva nell’eterna e ormai stucchevole battaglia di via Solferino per il controllo del Corriere della Sera?
 
Magari, c’è un po’ dell’uno un po’ dell’altro, insieme al conflitto tra due personalità entrambe dominatrici. Ma, ad ascoltare lo scambio di accuse, i toni da Regione Lazio (“Non rompa”, ha detto Marchionne che a quanto pare sta innovando non solo l’auto, ma anche lo stile Fiat) e gli argomenti (davvero flebili), viene da chiedersi se questo è il capitale all’italiana.
Non per fare i nostalgici da strapazzo. Nella storia non sono mancati né scontri all’arma bianca né coltellate alle spalle. Quella tra elettrici e meccanici nella prima metà del secolo scorso era una divisione strategica. Nel secondo dopoguerra abbiamo avuto l’industria pubblica contro quella privata, Montedison contro Fiat e Mediobanca a fare il doppio gioco, Carlo De Benedetti contro Silvio Berlusconi (il duello continua fino alla fine come nel romanzo di Joseph Conrad) e Raul Gardini contro tutti. Insomma, ne abbiamo viste di cotte e di crude. E per lo più è toccato ai governi mediare tra le fazioni di un capitalismo fragile e colmare con i denari dei contribuenti le loro debolezze.
 
Questa crisi, però, sta mostrando un allarmante cupio dissolvi del capitalismo italiano come soggetto pensante e agente. Non solo nessuno dei vari personaggi si pone davvero da un punto di vista generale (forse sarebbe troppo pretenderlo). Ma è difficile individuare anche il loro interesse di fondo, al di sotto delle molteplici brame individuali. Ridurre il debito non conviene anche alle imprese che cercano capitali sul mercato? E allora che senso ha chiedere sussidi? Una buona domanda interna non aiuta anche le imprese che esportano? E come mai i salari lordi sono così bassi? Che fine ha fatto il cuneo fiscale di Prodi? Perché si investe così poco? Perché i piccoli si lamentano, ma non vogliono crescere? La lista è lunga come il catalogo di Leporello.
 
Certo, la Confindustria che un tempo offriva un minimo comune denominatore, per lo meno tra le imprese grandi e quelle medie, mostra una debolezza di prospettiva. Da almeno un decennio è una lobby che tratta con i vari governi vantaggi parziali, ma ha rinunciato a fare proposte “alte” (se si escludono le elevate analisi dell’ufficio studi). Suoi ex presidenti sono tentati dalla politica, ridotta essa stessa a stanza di compensazione di favori. E lo dimostra non tanto il malaffare che viene a galla, ma l’andazzo quotidiano, l’uso della spesa pubblica come sostituto monetario delle riforme.
 
Nessuna elegia del tempo perduto. E’ evidente, però, che se ciascun soggetto non sa come commisurare i propri interessi a quelli di tutti gli altri, l’intera società è destinata a frammentarsi. Ciò vale anche per i rappresentanti del lavoro. Ma se questa è l’élite del capitale, si capisce perché ha tanto seguito il populismo nichilista.
 

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