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Rapporto Iai/Ispi, le priorità della politica estera

Negli ultimi 20 anni l’Italia si è impegnata in un rilevante ruolo di mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. Ha partecipato a 1342 missioni militari fuori dal confine. In corso ci sono 30 missioni, in 27 paesi diversi con oltre 6500 unità, che coinvolgono più di 6000 uomini (solo in Libia e Afghanistan) per un costo di 1,25 miliardi di euro. Ma quali fronti sono prioritari oggi? In caso di ritiro dal campo di battaglia ci possono essere danni per la sicurezza, l’economica o la diplomazia? Cosa comporta questo impegno in questo momento di crisi economico e finanziaria? Chi ne beneficia maggiormente? E ancora: a che serve la Nato? Con la nuova mappa geopolitica, hanno ancora senso le istituzioni internazionali come sono concepite attualmente? Le missioni internazionali vanno riviste e adeguate alle dinamiche strategiche di nuovi contesti?
 
Per rispondere a queste domande, l’Istituto Affari Internazionali (Iai) e l’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (Ispi) hanno svolto un ricerca per fare un quadro aggiornato sul ruolo dell’Italia sullo scacchiere mondiale per quanto riguarda l’impegno militare. Un team di analisti e ricercatori si sono posti queste domande e il risultato dell’indagine è un ricco documento che analizza il tema su diverse prospettive: prima di tutto, il contesto globale, con le nuove potenze e i nuovi strumenti tecnologici, oltre alle nuove minacce (nucleare); in secondo piano, la politica interna, il dibattito parlamentare e l’interesse nazionale a fare parte delle missioni internazionali; infine il piano della politica estera e della difesa, con lo stato della Nato e l’Unione europea e i rapporti multilaterali.
 
Il rapporto sottolinea l’allarme nucleare e i nuovi conflitti che possono svilupparsi nella regione: “Sembra infatti essersi interrotto il trend positivo, caratterizzato negli anni passati dal disarmo nucleare del Sud Africa e dalla rinuncia della Libia (e prima ancora del Brasile e dell’Argentina) ad acquisire tali capacità. Un trend confermato dalla rinuncia delle nuove repubbliche indipendenti dell’ex Unione sovietica (con la sola eccezione della Russia) al possesso e alla detenzione delle armi nucleari presenti sul loro territorio”. E avverte che quattro stati asiatici che non sono parte del Trattato di non proliferazione nucleare (Israele, India, Pakistan e Corea del Nord) detengono armi nucleari, e uno che ne fa parte è fortemente sospettato di volersene dotare: l´Iran.
 
Un’altra questione è il controllo dei cosiddetti “global commons”, ovvero, quei beni pubblici universali che sono cruciali per lo sviluppo del commercio e per la sicurezza. Lo studio indica almeno quattro tipologie complesse da cui possono prodursi gravi problemi: oceani, l’ambiente atmosferico (l’aria), lo spazio esterno e lo spazio cibernetico. “In quanto beni comuni, essi dovrebbero essere alla libera disposizione di ognuno, e liberi da ogni minaccia, ma naturalmente i due concetti possono rivelarsi contraddittori, in quanto una protezione efficace richiede una effettiva capacità di controllo, e una tale capacità di controllo definisce anche le regole e i limiti di una fruizione che non è più interamente libera”, appunta la ricerca.
 
La rilevanza della stabilità nel quadro internazionale di sicurezza, sia per l’Unione europea che per l’Italia, si deve alla dipendenza dallo sviluppo del commercio globale e dalla certezza degli approvvigionamenti, soprattutto in materia energetica. Il rapporto Ispi/Iai sostiene che questi interessi sono stati sempre garantiti dalla combinazione di un sistema multilaterale di governo globale e di una efficace alleanza con gli Stati Uniti. Ma la situazione è cambiata: nessuno di questi protagonisti gode della stessa sicurezza passata. Da questo ruolo partecipe dipende l’influenza dell’Unione europea nel quadro geopolitico mondiale, conclude il rapporto.
 
La presenza italiana nelle missioni internazionali è in un “arco di crisi” che va dal Maghreb all’Afghanistan, passando per i Balcani, il Medio Oriente, il Corno d’Africa e il Golfo Persico. Con una particolare importanza nel Mediterraneo “allargato”. Secondo il risultato dello studio, “per l’Italia partecipare alle missioni Nato vuol dire anche confermare e coltivare un  rapporto politico, militare ed economico con gli Stati Uniti, che rappresenta anch’esso una costante della politica estera italiana”.
 
Sulla possibile candidatura dell’ex ministro italiano Franco Frattini alla Nato nessun accenno, ma la partecipazione italiana alle missioni Nato risponde alla logica di spingere le organizzazioni internazionali di cui l’Italia fa parte ad occuparsi di regioni e/o dossier prioritari per gli interessi nazionali.
 
Per discutere sui risultati, Iai e Ispi hanno organizzato un convegno oggi mercoledì 25 settembre alla Camera dei deputati, sotto l’alto patrocinio della Presidenza della Repubblica. Ai lavori, tra gli altri, parteciperanno: Stefano Silvestri, presidente dello Iai; Giancarlo Aragona, presidente dell’Ispi; Gianfranco Fini, presidente della Camera dei deputati; Staffan de Mistura, sottosegretario di Stato agli Affari esteri e Giampaolo Di Paola, ministro della Difesa. Durante la giornata interverranno anche Gian Maria Gros-Pietro, Enrico Letta, Vittorio Emanuele Parsi, Riccardo Sessa, Mario Arpino e Marta Dassù. L’appuntamento vuole essere un tavolo di riflessione e confronto dove gli esperti del tema metteranno in luce le priorità, i vantaggi e i rischi per l’Italia e il suo coinvolgimento nelle missioni internazionali.
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