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Allevare una nuova generazione di imprenditori

Mentre le ultime famiglie del capitalismo pesante, quello fatto di ferro e fuoco, che va dalla trasformazione dell’acciaio alla sua lavorazione a farne prodotti tecnologici camionabili, volanti e anfibi, stanno scegliendo il loro way out dall’Italia, chi trainati da cavalieri bianchi, chi da frisoni neri olandesi, le istituzioni, con le loro tavole imbandite di report e statistiche, pianificano le misure per incentivare il sorgere di una nuova generazione di imprenditori.
Ministri, con cinguettii sabaudi, annunciano, travestendo l’autunno di primavera, l’arrivo di polline per le start-up pronte a sbocciare. E volano via dai lidi, un tempo sicuri, delle vecchie end-up. Delle quali rimangono i capannoni, vecchi tambuti dove manco i piccioni lavorano più per chiudere la catena di montaggio alimentare. E tra un cinguettio e l’altro, qualche grillo è lì a ricordare come, al posto di una cattiva laurea, sia meglio una buona scuola professionale.
 
Tutto giusto, anzi, giustissimo. E aggiungiamo, librandoci in volo con la livrea nera dei corvi rigorosamente low cost, che per fare start-up tecnologiche con un bell’arrosto da servire sui piatti di tutto il mondo ci vogliono l’uno e l’altro. I laureati e i tecnici specializzati. Intendiamoci, facendo presenza dell’assenza delle parole che le centoquarantabattute si mangiano, il certificato di laurea va considerato l’approdo dopo un percorso di formazione che apre la mente e non la domanda, anticipata, all’ufficio di collocamento. Perché, se ci si è iscritti all’università come ha voluto la vulgata popolare degli ultimi trent’anni, guardando alle statistiche degli occupati, si è fatto torto alla scuola e si spiega anche perché siamo arrivati dove siamo arrivati.
Se di punto in bianco si vorrebbe tutti, anziché all’università, al Lipsia professionale che fine farebbe l’università come motore dello sviluppo economico?
 
Cambiare rotta non è facile. Anche perché, volendo fare un esercizio cinico e infame, se si mette un annuncio di selezione del personale e si intervistano i venti o trenta giovani candidati, freschi freschi di laurea, si scopre che alla domanda: “Ma che lavoro fanno i tuoi genitori”, risponderanno: “Mio padre impiegato, mia madre maestra”. “Mio padre impiegato, mia madre maestra”. Un salmo responsoriale propedeutico di un’omelia fallimentare.
Bello era, adolescenti, uscire con mamma e papà a Natale con la ventiseiiesima pagata dal terziario a spendere in giocattoli. Bello. Tanto bello che i giocattoli ora sono nella cassapanca della seconda casa in vendita per la cara Imu. Con, per di più, l’aggravante della pancia troppo piena. La spina dorsale troppo molle. E la schiena senza segni, i segni delle nervate della fame.
 
Volete una nuova generazione di imprenditori? Fame ci vuole. Una fame archetipica, una voglia di fare e riuscire. Per scomodare Maslow, una fame intesa come bisogno primario. Ché, dice Verga “cane affamato non teme bastone”.
Quale cavolo di precarietà! Minchiate sono. Come le chiacchiere sui contratti, sui diritti, sulle categorie ecc. Sovrastrutture omeopatiche. Buone per cappuccetti rossi che hanno solo primarie esigenze. Le cure allupatiche ci vogliono. Nel senso di quella indole del lupo che è istinto predatorio, che è caccia famelica e solitaria. I tratti genetici di ogni vero self made man. Da noi, invece, gli unici self made man sempre impiegati sono. E al sabato, non avendo una benché minima attitudine, hobby o passione, rincoglioniti come sono dal passare le carte o forwardare mail, passano il tempo comprandosi un martello e quattro chiodi per crocifiggere la noia. Tant’é.
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