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Buoni consigli (a suon di samba) per il dopo Monti

Quando avremo un nuovo governo dopo le elezioni si porrà la questione di quale politica macroeconomica adottare. Saranno tre le questioni chiave:
 
a) quanto essere espansivi per sconfiggere la pericolosa congiuntura (decisione da effettuare congiuntamente con gli altri leader europei) per evitare l’uscita dall’euro della Grecia e, a cascata, di Portogallo, Catalogna, Spagna e … la fine dell’euro. Su questo conoscete bene la mia posizione su espansione differenziata tra euro Nord (minori tasse in deficit) e euro Sud (più spesa pubblica finanziata da minori sprechi e dalle tasse già aumentate);
 
b) come ricomporre l’allocazione in spesa pubblica e la provenienza dei 750 miliardi di entrate fiscali che ogni anno il Tesoro italiano ha a disposizione (tantissimi soldi!).
 
c) come intervenire nell’economia per rilanciare la produzione (ormai arenata da un decennio) del settore privato nel lungo periodo.
Su quest’ultimo punto partiamo dalle piccole riforme del governo Monti per cercare di fare meglio. Come riferimento abbiamo 1) la riforma Fornero sul mercato del lavoro con più ammortizzatori e più difficoltà di libertà di contratti e 2) la lotta all’evasione ed al settore informale tramite maggiori controlli e penalità.
 
Il miglior riferimento che mi è stato suggerito su questi temi è un articolo pubblicato sul Journal of Development Economics (appunto, una rivista scientifica che si occupa di crescita di lungo periodo) di un economista brasiliano, Gabriel Ulyssea.
 
Cosa sostiene Ulyssea?
 
Una cosa semplice ed intuitiva. Che combattere l’irregolarità (ed il sommerso) nel mercato del lavoro e dei beni si fa meglio riducendo i costi d’entrata nel settore regolare piuttosto che combattendo il settore informale o proteggendo i disoccupati con indennità di disoccupazione.
 
I risultati del suo modello applicato all’economia brasiliana indicano come la riduzione dei contributi e l’aumento dei sussidi alla disoccupazione non hanno grande impatto su occupazione, disoccupazione, produzione e benessere. Al contrario, l’abbassare i costi di entrata nel settore formale impatta in maniera sostanziale: rendere i costi di entrata nel settore formale simili a quello informale aumenterebbe del quasi 31% l’occupazione regolare e ridurrebbe la disoccupazione del 36%.
 
I suoi risultati mostrano anche come aumentare il livello di rispetto delle attuali regolazioni sul mercato del lavoro funziona molto bene per ridurre la dimensione del settore informale, ma aumenta anche significativamente la disoccupazione portando a perdite di benessere. L’aumento del contrasto all’irregolarità diminuisce la dimensione del 14,3% del settore informale ma aumenta del 6,6% la disoccupazione e del 15% riduce il benessere. Sono risultati che dipendono dalla difficoltà d’ingresso nel settore formale.
 
Dobbiamo dunque abbandonare i controlli pur di tollerare l’unico settore, quello informale, che riduce la disoccupazione? No. Di fatto un trade-off (dilemma) tra meno settore irregolare e più disoccupazione può essere aggirato con politiche che riducono il costo “della regolarità”, invece che con politiche repressive e di controllo: riducendo i costi d’ingresso nel mercato “regolare” si ottengono meno settore informale e più (e migliore) occupazione.
 
Questa settimana è uscito il consueto rapporto della Banca Mondiale sulle classifiche tra Paesi per la facilità di fare impresa.
 
Le nostre riforme menzionate nel 2011-12? Sono 2: l’Acea che ha reso più semplice e meno costoso ottenere l’elettricità, e l’adozione da parte dell’associazione dei notai di un sistema informatizzato che digitalizza le mappe catastali e le rende visibili sul web ai notai stessi.
 
Troppo poco. Tanto che siamo sempre lì, attorno al 72° posto: 84° per l’avvio d’impresa, 103° per l’ottenimento di un permesso di costruzione, 107° per quanto attiene all’ottenimento dell’elettricità, 104° per quanto riguarda l’ottenimento del credito, 131° per il pagamento delle imposte, 160° per la tutela in giudizio dei contratti.
Il prossimo governo dovrebbe mettere le migliori menti a risolvere questi problemi: un Ministero per la semplificazione ma non generico, semplificazione di fare impresa. Sarebbe la migliore risposta alle inutili annuali diatribe sull’art. 18.
 
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